In questo articolo vedremo come il progresso della genetica sta aiutando l’antropologia (un primo assaggio lo trovate qui).
Le prime tracce degli ominidi, ovvero i nostri antichi parenti, sono emerse in Africa e risalgono a circa sette milioni di anni fa. Recentemente, i ricercatori sono riusciti a recuperare informazioni genetiche da un ominide africano vissuto circa due milioni di anni fa. Questi sono i dati più antichi che siano mai stati raccolti da qualsiasi ominide, retrodatando di molto la precedente documentazione genetica.
Queste nuove informazioni provengono da quattro fossili di denti di Paranthropus robustus (simile agli australopitechi), rinvenuti in una grotta sudafricana.
Cosa si può scoprire, analizzando un DNA così antico? Se non è la prima volta che capitate su questo blog, probabilmente già saprete che il DNA di una persona è una sorta di manuale d’istruzioni, e sapendolo decodificare è possibile estrapolarne moltissime informazioni. Quello che gli scienziati proveranno a fare, sarà di sovrapporre il DNA del nostro vecchio parente sudafricano con il DNA dell’uomo contemporaneo. Quale uomo, chiederete. Non ha importanza, uno qualsiasi va bene. Infatti, se prendete due persone a caso nel mondo, il loro DNA sarà identico per il 99,6%. Chiaramente, il DNA dell’ominide presenta più differenze, ma se ben conservato (aspetto da non sottovalutare), sarà comunque possibile confrontare i tratti in comune.
Da un punto di vista pratico, i ricercatori sono già riusciti a compiere un miracolo estraendo DNA dai denti di questo antenato, considerato che resti così antichi si sono quasi trasformati in pietra. Però non è ancora chiaro se le poche sequenze di DNA recuperate possano aiutare a districare le relazioni evolutive su cui gli scienziati hanno dibattuto per decenni. Così, nel frattempo, sono state chiamate in causa le proteine.
Proteine in soccorso
Nel 2022, i ricercatori hanno estratto sequenze genetiche da campioni di permafrost della Groenlandia risalenti a due milioni di anni fa, stabilendo il record per la più antica scoperta di DNA antico ben preservato. A smorzare gli entusiasmi sul nostro antenato sudafricano sta il fatto che il DNA si degrada più rapidamente nei climi più caldi: i ricercatori hanno già compiuto sforzi eroici per sequenziare un frammento del più antico DNA di ominide mai registrato: un genoma di Neanderthal vecchio di “solo” 400.000 anni, che è stato trovato in una fossa sotterranea in Spagna.
Quindi non sapremo mai cosa era scritto nel genoma dell’antico ominide sudafricano? Forse ci sono altre strade che si possono percorrere. Le proteine, ovvero la traduzione pratica di quello che è scritto nel DNA, tendono ad essere più resistenti del materiale genetico, consentendo ai ricercatori di spingere la documentazione molecolare più indietro nel tempo. Mentre per analizzare il DNA si legge la sequenza di nucleotidi che lo compongono, per analizzare le proteine si legge la sequenza di aminoacidi. Generalizzando molto, si può dire che ogni aminoacido è codificato da una sequenza di tre nucleotidi nel DNA, così sequenziando una proteina si può poi ipotizzare la corrispondente sequenza di DNA.
Nel 2016, è stato possibile leggere la sequenza di proteine rinvenute in gusci d’uovo di struzzo (Struthionidae) recuperate in Tanzania, che avevano circa 3,8 milioni di anni. Un altro team di ricerca ha sequenziato le proteine dei denti da resti risalenti a circa 800.000 anni fa appartenenti a una specie di ominide chiamata Homo antecessor rinvenuta in Spagna, così come altre sequenze proteiche di fossili di Homo erectus di 1,8 milioni di anni provenienti dalla Georgia.
In questo recente studio, sono stati campionati quattro denti di P. robustus rinvenuti nella grotta di Swartkrans, situata 40 chilometri a nord-ovest di Johannesburg. I ricercatori hanno discusso a lungo su come questi ominini dal corpo robusto siano imparentati con altre antiche specie umane.
Utilizzando una tecnica chiamata spettrometria di massa, è stato possibile analizzare centinaia di residui proteici nello smalto di ciascun campione, ovvero lo strato minerale esterno dei denti.
Una proteina indentificata grazie alla sua abbondanza, chiamata amelogenina-Y, è prodotta da un gene che si trova sul cromosoma Y. La sua presenza in due dei campioni ha permesso ai ricercatori di concludere che i denti appartenessero a maschi. Gli altri due denti mancavano di tracce di amelogenina-Y e contenevano invece la versione del cromosoma X della proteina, portando gli autori a dedurre che gli esemplari fossero probabilmente femmine.
Grazie alla sequenza aminoacidica di questa proteina nei 4 campioni, è stato possibile costruire un semplice albero evolutivo che conferma che Homo sapiens, Neanderthal e ominidi trovati in Siberia chiamati Denisoviani (per i quali era già nota la sequenza aminoacidica dell’amelogenina-Y) vissuti negli ultimi 200.000 anni sono tutti più strettamente imparentati tra loro che con i Paranthropus, vecchi di 2 milioni di anni, come era logico supporre.
In un’altra proteina dello smalto, i ricercatori hanno trovato differenze di sequenza tra i resti dei 4 Paranthropus, che potrebbero riflettere la variabilità all’interno della specie.
È evidente che queste nuove informazioni raccolte non siano del tipo che suscitano sbalordimento, ma bisogna considerare che l’applicazione di simili tecniche all’antropologia è ancora agli albori ed è importante partire da basi solide. Costruire un semplice albero evolutivo partendo dai dati genetici di resti così antichi può essere considerato una svolta cruciale per la paleoantropologia. Inoltre, gli studi sulle proteine antiche potrebbero migliorare la comprensione di dove creature come l’Australopithecus afarensis – di cui ci sono molti frammenti fossili e l’esemplare più completo noto come Lucy – siedono nell’albero genealogico degli ominidi. Quel che è certo, è che negli anni a venire nuovi studi di questo tipo verranno pubblicati, e chissà se una prossima scoperta riuscirà a sbalordirci.

Un dettaglio del testo mi ha fatto sorgere una perplessità: due persone a caso hanno in comune il 99,6% del DNA; ora, quando si fa il test del DNA per la verifica della paternità e il referto indica una compatibilità del 90%, che cosa significa esattamente?
PS: Le prime tracce degli ominini: ahiahiahi signora Longari, ci distraiamo, eh?
PPS: a me sì che suscitano sbalordimento!
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Ciao Barbara 🙂 La tua domanda è molto interessante e mi ha fatto venire voglia di scrivere un articolo al riguardo. In breve, quando si fa un test del DNA, si confrontano solamente alcuni tratti dello 0,4% del DNA che differisce tra le persone, e l’esito del test, fa riferimento solo a queste piccole regioni ad alta variabilità. Per questo la percentuale può essere molto bassa (se le persone non sono relazionate), media (se sono parenti, ad esempio) o alta (se la relazione di parentela è molto stretta).
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Allora avevo pensato giusto, mi fa piacere.
Grazie.
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