In caso di incidenti che coinvolgono materiale radioattivo, quali sono i rischi per le persone esposte alle radiazioni?
I contaminanti possono essere rilasciati nell’aria e poi inalati nei polmoni, o possono entrare nel corpo attraverso l’ingestione, il contatto cutaneo o una ferita aperta.
La quantità assorbita è tanto maggiore quanto più alta è la solubilità del materiale nell’organismo: per radionuclidi solubili come trizio, iodio o cesio, la frazione assorbita può essere molto elevata, mentre per i composti chimici insolubili come il plutonio o l’uranio, solo una piccola frazione viene assimilata.
In caso di inalazione, frazioni di contaminante si depositano in diverse regioni delle vie respiratorie (rinofaringee, tracheobronchiali e regioni polmonari), mentre la frazione non depositata viene espirata.
In caso di ingestione, il contaminante passa attraverso il tratto gastrointestinale e una frazione viene assorbita, mentre il resto è escreto con le feci. Il radionuclide assorbito viene immesso nel flusso sanguigno, e da qui verrà depositato in organi specifici (a seconda delle caratteristiche del radionuclide), oppure escreto attraverso le urine.
Ad esempio, lo stronzio, che ha proprietà chimiche simili al calcio, tende ad accumularsi in organi ricchi di calcio, come le ossa; il cesio, a causa delle sue proprietà simili a quelle del potassio, si distribuisce uniformemente in tutto il corpo. Lo iodio, un elemento costitutivo degli ormoni tiroidei, tende ad accumularsi nella tiroide, sia che si tratti di iodio radioattivo, che di iodio stabile. Finché questi contaminanti rimangono nel corpo, possono provocare rischi significativi per la salute a lungo termine (sviluppo di tumori del polmone, del fegato, della tiroide, delle ossa, eccetera).
L’unica possibilità per ridurre questi rischi è la rimozione dei contaminanti radioattivi dall’organismo, oppure prevenirne l’assorbimento.
Strategie di decontaminazione dell’organismo
La rimozione o riduzione del livello di radionuclidi depositati nell’organismo può essere ottenuta tramite la riduzione dell’assorbimento del radionuclide, o potenziandone l’escrezione. I metodi impiegati per rimuovere i contaminanti radioattivi includono:
- Chelazione del radionuclide nel sangue. Viene eseguita attraverso somministrazioni endovenose di DTPA. Questo farmaco è disponibile in due forme: calcio (Ca-DTPA) e zinco (Zn-DTPA). Entrambe le forme funzionano legandosi al plutonio, al californio, all’americio, al curio e all’ittrio. Questi materiali radioattivi, quando si legano al DTPA, vengono espulsi dall’organismo tramite le urine, invece di essere assorbiti. Questo trattamento non previene l’ingresso del radionuclide nell’organismo, ma semplicemente ne riduce la quantità assorbita.
- Chelazione del radionuclide nel lume intestinale. Questa strategia è equivalente a quella descritta nel punto precedente, solo che invece di avvenire nel circolo sanguigno, avviene nell’intestino. Lo stronzio radioattivo, se assorbito, si deposita nelle ossa, predisponendo all’insorgenza di tumori come l’osteosarcoma. Farmaci a base di calcio, alginato di sodio o fosfato di alluminio sono potenzialmente efficaci per prevenire l’assorbimento intestinale dello stronzio radioattivo, che così viene eliminato rapidamente tramite escrezione fecale.
- Scambio ionico nel tratto gastrointestinale. Anche con questa strategia si cerca di prevenire l’assorbimento intestinale di un radionuclide, anche se il processo chimico è leggermente diverso (ma non ci soffermeremo su questo aspetto). Il blu di Prussia è una sostanza che aiuta a rimuovere il cesio e il tallio radioattivi dall’organismo, intrappolandoli nell’intestino ed evitando che vengano assorbiti. Il blu di Prussia riduce l’emivita biologica (ovvero la quantità di tempo necessaria al materiale radioattivo per lasciare il corpo) del cesio da circa 110 giorni a una trentina, e quella del tallio da 8 giorni a 3. Va da sé che meno tempo un radionuclide sta nell’organismo, minore è il danno che può causare.
- Saturazione dell’organo bersaglio. Questa strategia ha l’obiettivo di prevenire l’assorbimento del radionuclide da parte di un organo specifico, cercando di saturarlo prima che venga a contatto con il materiale radioattivo. Ad esempio, se si assume lo ioduro di potassio prima dell’esposizione allo iodio radioattivo, la tiroide sarà già satura quando viene a contatto con quest’ultimo, evitando di assorbirlo. Affronteremo questo argomento più in dettaglio nel paragrafo successivo.
Il trattamento di decorporazione dovrebbe iniziare al più presto dopo l’esposizione, a volte anche se la contaminazione è solo sospetta e non ancora verificata. Dal momento che questi trattamenti non sono salutari per l’organismo, dovrebbero essere interrotti non appena i risultati della dosimetria interna confermano la riduzione della contaminazione sotto la soglia di pericolosità.
Lo iodio radioattivo
Prima del 1963, gli Stati Uniti e altri Paesi hanno condotto più di 500 test di armi nucleari. Durante questi test, particelle radioattive e gas sono stati diffusi nell’atmosfera. A seconda delle dimensioni e del tipo di arma esplosa, alcune di queste particelle e gas hanno viaggiato per grandi distanze prima di depositarsi a terra (in un processo chiamato “fallout”).
In caso di incidente nucleare, a quale radionuclide saremmo esposti maggiormente? Lo iodio 131 (I-131).
Esistono 37 isotopi noti dello iodio (simbolo chimico: I), e solo uno non è radioattivo (I-127) (gli isotopi sono le diverse varianti di un elemento chimico, la cui differenza sta unicamente nella massa dell’atomo). La maggior parte delle forme radioattive di iodio sono generate come sottoprodotto di una reazione di fissione nucleare, eseguita durante i test sulle armi nucleari o nelle centrali nucleari. I-129 e I-131 sono i radioisotopi più comunemente usati e pertanto con il maggiore impatto sull’ambiente, qualora venissero rilasciati.
Lo iodio radioattivo si disperde in fretta nell’aria e nell’acqua. Nel suolo, invece, si combina facilmente con i materiali organici e si diffonde più lentamente. Se rilasciato, I-129 rimarrà nell’ambiente per milioni di anni, invece I-131 ha una breve emivita (circa 8 giorni) e quindi decadrà completamente nel giro di pochi mesi. La maggior parte di I-129 presente nell’ambiente proviene dai test sulle armi nucleari: i test negli anni ’50 e ’60 hanno rilasciato molto I-129 e I-131 nell’atmosfera, con il primo che si trova tutt’ora a livelli molto bassi (ma ancora misurabili) in tutto il mondo, mentre il secondo è ormai decaduto.
Durante i due grandi incidenti occorsi alle centrali nucleari di Chernobyl nel 1986 e di Fukushima nel 2011, enormi quantità di I-131 e cesio-137 sono state rilasciate nell’atmosfera.

A Chernobyl, la contaminazione da iodio radioattivo è avvenuta principalmente per inalazione e attraverso il consumo di latte e cibo freschi, prodotti localmente. Non essendo stata intrapresa nessuna misura profilattica contro la contaminazione, non vi furono raccomandazioni per l’isolamento dell’area e la restrizione alimentare. Ciò ha avuto effetti catastrofici sulla popolazione e il numero di tumori alla tiroide è aumentato esponenzialmente negli anni successivi all’incidente (vedasi tabella sottostante). Inoltre, l’assorbimento di iodio radioattivo da parte della tiroide è stato esacerbato dalla carenza di iodio nella dieta della popolazione, il che ha favorito un assorbimento maggiore del radionuclide.

Rispetto a Chernobyl, in seguito all’incidente di Fukushima è stata rilasciata una quantità di iodio radioattivo molto più bassa nell’atmosfera. Inoltre la popolazione locale non soffriva di carenza di iodio ed è stata immediatamente organizzata una campagna di protezione della popolazione. Subito dopo l’incidente è stato implementato un programma di sorveglianza sanitaria esauriente che includeva controlli sanitari, indagini sulla gravidanza e sul parto, conteggio di tutto il corpo ed esami ecografici della tiroide. Per questi motivi, non si prevede che l’incidente di Fukushima avrà esiti misurabili in termini di malattie indotte dalle radiazioni (es. tumori).
Profilassi
Le diverse conseguenze degli incidenti di Chernobyl e Fukushima dimostrano come una corretta profilassi contro l’irradiazione tiroidea sia obbligatoria, in caso di contaminazione da iodio radioattivo. Oggigiorno, ciò è possibile grazie ad una contromisura semplice ed efficace: la somministrazione di grandi quantità di iodio stabile (l’unico isotopo non radioattivo), così da saturare il meccanismo di captazione tiroidea. Lo iodio stabile, somministrato sottoforma di ioduro di potassio, inibisce l’assorbimento di iodio radioattivo di oltre il 98% quando ne viene assunta una grande quantità diverse ore prima della contaminazione, di oltre il 90% quando viene assunto al momento della contaminazione e solo del 50% quando somministrato con un ritardo di 3-4 ore rispetto all’avvenuta contaminazione. L’assorbimento tiroideo verrà quindi soppresso per 48–72 h dopo la somministrazione, dopodiché aumenterà nuovamente. Per questo, se la contaminazione dovesse persistere per diversi giorni, sarebbero necessarie assunzioni quotidiane di ioduro di potassio. Questo farmaco deve essere assunto solamente previa indicazione da parte delle autorità sanitarie, e mai in assenza di contaminazione.
Chiaramente, questa profilassi è utile solo in caso di rilascio di materiale radioattivo nell’atmosfera (per questo le pastiglie di ioduro di potassio sono normalmente distribuite alla popolazione che vive entro qualche km di distanza da una centrale nucleare), mentre in caso di una guerra nucleare, purtroppo non ci sono precauzioni da prendere, se non prevenirla.
Fonti
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/10201561/
https://www.cdc.gov/nceh/radiation/emergencies/dtpa.htm
https://www.cdc.gov/nceh/radiation/emergencies/prussianblue.htm
https://hal.archives-ouvertes.fr/hal-03515257/document
https://www.epa.gov/radiation/radionuclide-basics-iodine
https://link.springer.com/article/10.1007/s12020-020-02498-9#Tab4