Tra qualche mese seguiremo con entusiasmo le Olimpiadi di Tokyo. Vedremo centinaia di atleti competere per essere incoronati i più veloci, i più forti, o i più tecnicamente dotati. Ma dietro ogni corridore, nuotatore o ginnasta c’è un team interdisciplinare di scienziati incaricati di mantenere gli atleti fisicamente e mentalmente sani e in grado di esprimersi al limite massimo delle loro possibilità.

Negli eventi di resistenza, come la maratona, i mitocondri (le centrali energetiche delle cellule) sono la chiave delle prestazioni. I ricercatori stanno anche approfondendo le neuroscienze per capire come il cervello si comporta quando si colpisce una palla che si muove a velocità incredibile in sport come il baseball o il cricket. Alcuni allenatori si rivolgono alla realtà virtuale per offrire un vantaggio ai loro atleti. Infine, i microbiologi stanno iniziando a scoprire il contributo che la flora batterica intestinale offre alle prestazioni atletiche. Anche mantenere gli atleti in salute è una priorità: il perfezionamento delle tecniche di allenamento sta migliorando, ad esempio, la capacità degli atleti di affrontare il caldo estremo. Inoltre, l’utilizzo di sensori indossabili e tecniche di apprendimento automatico aiutano a prevenire lesioni. Nei paragrafi successivi vedremo tutti questi aspetti nel dettaglio.

Infine, la scienza ha anche un ruolo importante nel garantire la lealtà delle competizioni: ad esempio, ha fatto molto per garantire l’equità delle competizioni femminili (potete leggere qui un articolo al riguardo)

I mitocondri: gli alleati dei maratoneti

Quando si pratica sport, l’organismo ha bisogno di energia. La valuta energetica del nostro corpo è l’ATP. Questa può essere prodotta sia in maniera anaerobica (per un utilizzo massiccio ed immediato), oppure aerobica (per un utilizzo controllato, ma duraturo nel tempo). Gli sprinter, come Usain Bolt, sfruttano solo il primo metodo, ricavando ATP dalla creatina (una proteina ricca di energia conservata nei muscoli). Invece i maratoneti, come Eliud Kipchoge, dopo aver esaurito la disponibilità iniziale di creatina, devono sfruttare il glucosio per produrre energia, passando quindi alla modalità aerobica. La produzione aerobica di ATP avviene nei mitocondri. Questi si attivano rapidamente, entro pochi minuti dall’inizio dell’esercizio, ma anche per i migliori atleti, l’attivazione non è immediata e quindi sono inutili per un atleta che fa sprint di 100 o 200 metri. La situazione è ovviamente diversa per un corridore di lunghe distanze. Una persona non abituata a fare esercizio fisico va incontro ad uno stress fisiologico quando corre per svariati minuti: la temperatura interna e la frequenza cardiaca aumentano e il sangue diventa più acido a causa dell’accumulo di acido lattico. Quando l’organismo inizia ad abituarsi all’esercizio fisico, tollera meglio lo sforzo, promuovendo la biogenesi di nuovi mitocondri, la rimozione dei vecchi e l’adattamento di quelli esistenti in modo da migliorarne la produzione energetica. Un maratoneta di alto livello vanta quindi mitocondri più efficienti di un corridore amatoriale.

Come può la scienza aiutare gli atleti a “potenziare” i loro mitocondri?

La qualità e il tipo di allenamento hanno un impatto sui mitocondri. Un approccio consiste nell’esaurire il glicogeno (la riserva di glucosio) dei muscoli, attraverso esercizi ad alta intensità e continuare l’allenamento “a secco” di glicogeno. È stato dimostrato che questo stress stimola la disgregazione e la rigenerazione mitocondriale. Un altra tecnica consiste nell’allenamento ad alta quota. La pratica è iniziata dopo le Olimpiadi del 1968, che si sono svolte a Città del Messico, a un’altitudine di circa 2.300 metri. Persino i campioni di corsa di resistenza hanno faticato a gareggiare a causa dei livelli più bassi di ossigeno nel sangue dovuti all’aria rarefatta. Da quel momento, gli atleti hanno iniziato ad allenarsi in quota, per stressare i loro organismi. Due recenti strategie, opposte tra loro, consistono nel dormire in alta quota, ma poi allenarsi a livello del mare, o viceversa. Infatti, il corpo di un atleta si acclimata all’allenamento ad alta quota aumentando i volumi di sangue, il numero di globuli rossi e la capacità del cuore di pompare sangue, tutti fattori che consentono ai muscoli di ricevere più ossigeno e di potenziare i mitocondri. In un esperimento su alcuni atleti, è stato dimostrato che l’esposizione all’altitudine per un mese aumenta la densità del volume mitocondriale del 6-8%.

Allenarsi con la realtà virtuale

In alcuni sport, la prestanza fisica e la tecnica non sono sufficienti per eccellere, in quanto la velocità dei riflessi ha un peso ancora maggiore. In sport come il baseball, il cricket e il tennis, dove le palline si muovono così velocemente che il tempo per elaborare il loro volo è minimo, le abilità percettive e l’anticipazione sono fondamentali. Se una tecnologia come la realtà virtuale può migliorarli anche solo in minima parte, i benefici sul campo potrebbero essere sostanziali.

Gli psicologi spiegano che servono almeno 250 millisecondi (1/4 di secondo) prima che le persone inizino a muoversi dopo aver visto uno stimolo – e questo solo se sapevano già come comportarsi. Se dovessero decidere anche quale movimento compiere, i tempi di reazione raddoppierebbero. Nel baseball, nel cricket e nel tennis d’élite, la palla passa da atleta a atleta in circa 400 millisecondi. Inoltre, per colpire quella palla, il giocatore deve essere già a metà di un movimento completo del corpo, quando parte.

Per colpire una palla, il cervello deve prevedere rapidamente dove questa stia andando. La previsione è qualcosa che gli animali fanno naturalmente, in quanto fondamentale per la sopravvivenza, per trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Gli sport nei quali una palla viaggia ad alta velocità, vengono testati i limiti di quella funzione neurobiologica di base.

Studi di tracciamento oculare in vari sport indicano uno schema in base al quale gli occhi dei giocatori seguono la palla al rilascio, quindi producono un movimento rapido, noto come saccade, per guardare dove la palla si sta dirigendo. Quando la palla entra in questo nuovo campo visivo, il cervello confronta i nuovi dati sensoriali con la previsione fatta e gli occhi cercano di nuovo di seguire la palla. Tali movimenti oculari sono estremamente accurati anche nei principianti, ma anni di esperienza portano gli atleti più esperti a seguire la palla inizialmente più a lungo, quindi a produrre saccadi più accurate (prevedendo con maggiore precisione dove la palla arriverà).

È possibile sfruttare la realtà virtuale per assistere l’allenamento dei giocatori di tennis o baseball, per esempio nel migliorarsi a seguire e prevedere le traiettorie della palla. La simulazione non sarebbe perfetta, ma aiuterebbe notevolmente un novizio a migliorare queste caratteristiche.

La flora intestinale influenza la prestazione agonistica?

Sebbene il microbioma intestinale sia stato implicato in numerosi aspetti della salute e della malattia, i collegamenti con l’atletismo sono molto meno studiati. Tuttavia, l’interesse sta crescendo, aiutato dai progressi nell’ultimo decennio che hanno consentito ai ricercatori di scoprire non solo quali microbi ospita l’intestino, ma anche cosa fanno. Questa conoscenza suggerisce che l’enorme diversità di organismi che compongono il microbioma intestinale di una persona – ciascuno unico, come un’impronta digitale – potrebbe convergere su un numero più contenuto di funzioni. Una comprensione profonda del legame tra il microbioma intestinale e la forma fisica potrebbe giovare alla salute non solo degli atleti d’elite, ma di tutta la popolazione.

Dei trilioni di microrganismi che vivono su e dentro di noi, la maggior parte si trova nel tratto gastrointestinale. Alterazioni del microbioma sono direttamente collegate a condizioni gastrointestinali, come la malattia infiammatoria intestinale, e sono state implicate nel diabete, cancro, malattie cardiache, obesità e persino nei disturbi della salute mentale.

La composizione del microbioma intestinale è influenzata da molti fattori, tra cui il modo in cui la persona è nata (parto vaginale o cesareo), l’uso di farmaci (soprattutto antibiotici), l’abitudine al fumo, il consumo di alcol, i livelli di stress, l’età e – ovviamente – la dieta. Tuttavia, si sa poco su come l’esercizio influenzi il microbioma, o viceversa. Sebbene il campo di ricerca sia ancora agli albori, i ricercatori stanno iniziando a intravedere una relazione, insieme a potenziali meccanismi. Una scoperta interessante è che la forma fisica è associata a una maggiore diversità microbica. Uno studio del 2016 ha rilevato che, in 39 adulti sani, l’idoneità cardiorespiratoria era correlata alla diversità microbica, a prescindere dalla dieta. La variazione dell’idoneità cardiorespiratoria era un parametro migliore del sesso, dell’età, dell’indice di massa corporea e addirittura della dieta nel prevedere il grado di diversità delle specie nell’intestino dei partecipanti. Un ruolo dei batteri intestinali è quello di aiutare ad abbattere i carboidrati complessi mediante fermentazione, producendo acidi grassi a catena corta come butirrato, acetato e propionato come sottoprodotti, che stanno emergendo come una componente importante del collegamento tra il microbioma e la forma fisica. Si pensa infatti che questi acidi grassi vengano utilizzati dai muscoli come fonte di energia. Il team di ricerca ha scoperto che i partecipanti più in forma avevano livelli più elevati di butirrato nelle feci.

Un altro studio ha coinvolto atleti che hanno corso la maratona di Boston. I campioni sono stati raccolti quotidianamente, prima e dopo la maratona, nel tentativo di studiare gli effetti acuti dell’esercizio sul microbioma. Il risultato più importante è stato un picco nell’abbondanza del batterio Veillonella subito dopo la maratona. Questo microbo è inoltre presente a livelli più alti nei corridori rispetto a chi vive una vita sedentaria. Perché? La Veillonella è nota per metabolizzare il lattato, un sottoprodotto della respirazione anaerobica, responsabile della sensazione di dolore nei muscoli che può seguire un intenso esercizio fisico. Quando il team ha analizzato i campioni, ha scoperto che il batterio stava attivamente convertendo il lattato in propionato. Il lattato è un metabolita che viene prodotto in abbondanza durante una maratona e che Veillonella può utilizzare per produrre energia, sottoforma di propionato. Come già detto, questo acido grasso promuove anche la funzione muscolare. La presenza di questi batteri potrebbe quindi creare un ciclo di feedback che avvantaggia sia l’atleta che i batteri. A conferma di questa teoria, il team di ricerca ha condotto alcuni esperimenti. In primo luogo, ha isolato un ceppo di Veillonella da un corridore, che ha poi inoculato in alcuni topi, e infine misurato per quanto tempo i roditori potevano correre su un tapis roulant. Rispetto ai topi inoculati con un batterio che non metabolizza il lattato, i topi iniettati con Veillonella hanno corso per il 13% più a lungo. Questa non rappresenta una prova definitiva, perché prima di trarre conclusioni bisogna eseguire studi anche sull’uomo e possibilmente comprendere anche il ruolo degli altri batteri, ma le prime indicazioni sembrano promettenti.

Per quanto riguarda i benefici su larga scala, una potenziale applicazione della scoperta sulla Veillonella è per il diabete. L’esercizio fisico è incoraggiato come trattamento sia per le persone con tale malattia che per quelle ad alto rischio di svilupparla. Tuttavia, uno studio del 2020 ha rilevato che circa un terzo delle persone a rischio non riesce a trarre alcun beneficio dall’esercizio. I ricercatori hanno scoperto che in coloro che ne traggono beneficio, i livelli di butirrato e propionato sono aumentati bruscamente dopo l’attività fisica, suggerendo che il microbioma potrebbe essere coinvolto. Analizzando i dati sulle persone resistenti all’esercizio, si è scoperto che il livello di Veillonella era significativamente ridotto rispetto a chi traeva beneficio. Questo potrebbe portare in futuro a preparare degli integratori a base di fermenti lattici mirati (ricchi di Veillonella) per aiutare queste persone.

Come la scienza può aiutare l’acclimatazione degli atleti

Per molti anni, gli atleti non abituati a gareggiare in condizioni di caldo si sono allenati in climi più caldi per acclimatarsi e ridurre il rischio di malattie da calore. Nel tempo, le strategie sono state perfezionate in laboratorio per offrire consigli più precisi e basati sull’evidenza. Negli ultimi 30 anni, la ricerca scientifica sullo sport ha compreso meglio i meccanismi fisiologici e psicologici in gioco.

Nonostante questi progressi, il caldo sta diventando sempre più un problema. Il cambiamento climatico sta portando periodi di caldo più frequenti e più lunghi e regioni come il Golfo Persico e l’Asia orientale ospitano eventi sportivi internazionali più regolarmente. I prossimi Giochi Olimpici, in programma a Tokyo a luglio, potrebbero essere i più caldi mai registrati. Per questo sono importanti strategie di acclimatazione al calore più efficaci e personalizzate.

L’obiettivo è di sottoporre il corpo a cambiamenti fisiologici a breve termine che rendano l’atleta meno incline a un affaticamento prematuro, prestazioni ridotte e malattie da calore. La ricerca in quest’area è triplicata negli ultimi vent’anni e si basa su tecniche sviluppate inizialmente per aiutare i soldati a combattere in climi caldi. Fino a un decennio fa, l’approccio all’acclimatazione non era particolarmente rigoroso. Gli atleti si recavano ai campi d’allenamento con clima caldo o trascorrevano del tempo esercitandosi in camere ambientali sintonizzate per ricreare una certa temperatura e umidità relativa. In entrambi i casi, l’attenzione era focalizzata solo sul tempo che trascorrevano al caldo, senza pensare a ottimizzare il modo in cui il corpo si adattava. Invece, negli ultimi 5-10 anni, i ricercatori hanno perfezionato le tecniche di acclimatazione. Durante un processo chiamato ipertermia controllata, gli scienziati incoraggiano gli atleti a fare 30 minuti di esercizio per aumentare la temperatura interna a circa 38,5°C, un grado oltre il normale livello fisiologico. Quindi mantengono quella temperatura per altri 30-60 minuti, sedendosi in una sauna o continuando a fare esercizi leggeri. Nel corso di una serie di sessioni, comunemente distribuite su 5-10 giorni, gli atleti possono sottoporsi a una serie di adattamenti fisiologici, tra cui aumento della sudorazione, riduzione della frequenza cardiaca, miglioramento del comfort durante l’esercizio e abbassamento della temperatura corporea a riposo. La chiave per far funzionare l’acclimatazione, tuttavia, è personalizzare il programma in base alla risposta naturale di un atleta alle alte temperature. Sebbene la malattia da calore generalmente insorga quando la temperatura corporea raggiunge circa 40°C, la temperatura alla quale la prestazione fisica inizia a soffrire varia da persona a persona.

Questo aspetto è particolarmente importante per le atlete. In uno studio del 2019 che ha confrontato uomini e donne, i ricercatori hanno scoperto che le donne generalmente impiegano più tempo per adattarsi fisiologicamente al calore rispetto agli uomini. Ciò suggerisce che un programma di formazione che funzioni per gli uomini, potrebbe non fornire una protezione adeguata anche per le donne.

L’acclimatazione sta diventando una priorità per gli atleti e gli allenatori: nel 2015, solo il 15% dei concorrenti ai Campionati mondiali di atletica leggera a Pechino ha riferito di aver completato un periodo di acclimatazione dedicato di 5-30 giorni, mentre alla competizione del 2019 a Doha, più della metà lo aveva fatto.

L’intelligenza artificiale può prevenire gli infortuni

I calciatori professionisti subiscono tra 2,5 e 9,4 infortuni ogni 1.000 ore di sforzo, circa un terzo dei quali derivante da un’esagerazione dell’attività fisica e quindi potenzialmente prevedibile. La maggior parte degli infortuni dura circa una settimana, ma quelli ricorrenti – circa il 15% del totale – spesso richiedono più riposo. Durante questo periodo, il condizionamento fisico e mentale del giocatore diminuisce e la sua carriera potrebbe subire conseguenze, anche permanenti.

Il problema è peggiore al di fuori dello sport d’élite. Lo sport giovanile, ad esempio, sta vivendo “una pandemia” di infortuni. Gli atleti di 10 anni spingono sempre più forte, cercando di raggiungere una carriera negli sport professionistici. Il tasso di infortuni per i giovani calciatori, ad esempio, può arrivare fino a 19,4 infortuni ogni 1.000 ore di sforzo.

I ricercatori e gli allenatori stanno lavorando per sviluppare metodi di raccolta e analisi di dati necessari per fare previsioni, non solo per gli sport di squadra, ma anche individuali, con la speranza che questo approccio possa salvare carriere e far risparmiare denaro, oltre a migliorare le prestazioni degli atleti.

Quali dati vengono analizzati? In uno studio che ha coinvolto l’ambiente calcistico, sfruttando dei sensori che registravano gli allenamenti degli atleti, i ricercatori hanno estratto 12 variabili, tra cui la distanza totale percorsa, la distanza percorsa correndo a più di 5,5 metri al secondo e il numero di accelerazioni e decelerazioni ad alta intensità, che aggiungono ulteriore stress sul corpo. Ovviamente, in altri sport, i dati più utili da raccogliere potrebbero essere diversi. I giocatori di baseball, ad esempio, potrebbero indossare maniche intelligenti con accelerometri che misurano gli angoli delle articolazioni, la velocità e la tensione dei muscoli, mentre i pattinatori possono attaccare accelerometri e giroscopi ai fianchi per registrare i salti. Orecchini, body, gilet o fasce possono misurare la frequenza cardiaca e la saturazione di ossigeno, mentre i braccialetti la qualità del sonno e la temperatura corporea. Alcuni scienziati dello sport suggeriscono di includere anche dati contestuali, come l’umore dell’atleta, l’indice di massa corporea e gli infortuni precedenti, nonché la quantità di acqua bevuta in un dato periodo.

Questo approccio multivariato è la chiave per prevedere gli infortuni. Tuttavia, c’è un divario tra la quantità di dati che viene acquisita e l’elaborazione degli stessi. Ora si tratta di colmare questa lacuna utilizzando l’intelligenza artificiale. In questo senso, l’intelligenza artificiale potrebbe fungere da assistente allenatore. Gli algoritmi potrebbero consentire a un adolescente di allenarsi in modo più intelligente ed evitare un infortunio che potrebbe porre fine alla carriera, o aiutare un atleta professionista a competere per qualche anno in più. Ma il successo della tecnologia dipende, anche dalla capacità dei ricercatori di convincere gli allenatori a includere quei dati nel loro processo decisionale.

Fonti

https://www.nature.com/articles/d41586-021-00817-2

https://www.nature.com/articles/d41586-021-00816-3

https://www.nature.com/articles/d41586-021-00821-6

https://www.nature.com/articles/d41586-021-00815-4

https://www.nature.com/articles/d41586-021-00818-1