Il 4 settembre 2020, sulla rivista Nature Communications, è stato pubblicato uno studio che potrebbe diventare una pietra miliare nella ricerca di una terapia contro il COVID-19: alcuni ricercatori del Karolinska Institutet di Stoccolma hanno infatti scoperto che un nanoanticorpo (chiamato Ty1) isolato dagli alpaca è in grado di prevenire l’ingresso del SARS-CoV-2 (in gergo, il nuovo coronavirus) nelle cellule umane.
Tempo fa avevo pubblicato un articolo nel quale spiegavo come il virus infetta le nostre cellule: brevemente, sull’involucro del virus si trova una proteina (chiamata spike) in grado di ancorarsi al recettore ACE2 presente sulla superficie delle cellule. Questo processo di ancoraggio è il primo, necessario step perché avvenga l’infezione. I ricercatori hanno scoperto che un anticorpo dell’alpaca in formato “mini” (per questo chiamato nanoanticorpo) è in grado di legarsi all’uncino della proteina spike ed impedirle di agganciarsi al recettore ACE2, rendendo di fatto il virus inoffensivo.
Ma come si è arrivati a produrre nanoanticorpi contro il SARS-CoV-2 negli alpaca? Va detto che i camelidi producono spontaneamente nanoanticorpi, ed era già noto che alcuni di essi possono essere adattati nell’uomo. La ricerca è iniziata a febbraio, quando ad un alpaca è stata somministrata la proteina spike del virus, per stimolare la produzione di anticorpi. Questa è la medesima strategia seguita dai vaccini: esporre un organismo a componenti isolate di un virus (quindi non pericolose) per stimolare una risposta anticorpale. Dopo 60 giorni, l’alpaca è stato sottoposto ad un prelievo di sangue per valutare la presenza di anticorpi, notando una forte risposta immunitaria. Tra gli anticorpi analizzati in laboratorio, uno in particolare si era rivelato estremamente efficace nel prevenire l’infezione da SARS-CoV-2 ed è stato ribattezzato Ty1, in onore dell’alpaca Tyson che lo ha prodotto, e che potete vedere in foto.

Esistono due enormi vantaggi nell’utilizzare un nanoanticorpo invece di un normale anticorpo: la dimensione ridotta ne aumenta la specificità, e inoltre può essere prodotto su larghissima scala. Vediamo questi due aspetti nel dettaglio.
Sull’uncino della proteina spike si trovano alcune appendici, chiamate glicosilazioni, che lo “nascondono” alla vista degli anticorpi, proteggendolo. Data la ridotta dimensione (un decimo di un anticorpo convenzionale), il nanoanticorpo Ty1 riesce invece a farsi spazio e a raggiungere il sito attivo dell’uncino, legandovisi e prevendendone l’interazione con ACE2.
È difficile sfruttare gli anticorpi a scopo terapeutico perché non è possibile produrne in grandi quantità (solitamente vengono isolati da topi, ratti o conigli, e la procedura richiede molto tempo). I nanoanticorpi invece possono essere prodotti nei batteri e si riesce a purificarne anche più di 30 milligrammi per litro di coltura batterica (tanto, fidatevi). Un altro vantaggio è che lavorare con i batteri invece che con gli animali è molto più economico, oltre che processivo, rappresentando la condizione ideale per produrre il farmaco attualmente più richiesto nel mondo.
Dal momento che, nei test effettuati, Ty1 sembra agire in maniera estremamente specifica, è probabile che il suo utilizzo a scopo terapeutico non generi effetti collaterali. Per appurare ciò, si sta procedendo spediti verso la realizzazione di test preclinici sugli animali, con la speranza di confermare le aspettative e poi procede all’immissione di Ty1 in clinica.