È fresca la notizia di un vaccino della Pfizer per proteggerci dal coronavirus SARS-CoV-2. Sembra infatti che questo vaccino stia superando il trial clinico di fase 3 brillantemente, con un’efficacia vicina al 90%. Questo valore non è ancora definitivo, ma difficilmente scenderà sotto il 50%, che è la soglia minima per ricevere l’approvazione da parte della Food and Drug Administration, necessaria per la commercializzazione. La disponibilità del vaccino sarà inizialmente limitata, quindi diversi comitati di esperti stanno esplorando piani strategici di prioritizzazione. Gli operatori sanitari saranno il primo gruppo (essendo la categoria maggiormente esposta al virus), seguiti da coloro che sono a più alto rischio di morte o ospedalizzazione: gli over 65 e le persone con determinate condizioni di comorbilità.

Tutti sappiamo che i vaccini prevengono la diffusione di una malattia (solitamente virale) in quanto stimolano la produzione di anticorpi neutralizzanti contro l’agente patogeno. Un altro beneficio deriva dall’immunità di gregge, che si raggiunge quando la maggior parte della popolazione (solitamente più del 90%) si vaccina per proteggersi da una malattia. In questo modo, è protetta anche la piccola percentuale di popolazione che non ha gli anticorpi (perché è immunodepressa e quindi non può vaccinarsi o non è in grado di sviluppare l’immunità), in quanto il virus non riesce a penetrare nella popolazione.

Non è però automatico che i vaccini siano in grado di innescare una forte risposta immunitaria in tutte le persone, o che la contagiosità di una persona vaccinata sia azzerata. Queste caratteristiche vengono misurate dopo lunghi studi di popolazione sulle persone che ricevono il vaccino.

I vaccini offrono sia una protezione diretta che indiretta. La prima viene ottenuta con la vaccinazione stessa, che porta alla produzione degli anticorpi, e serve a contrastare i sintomi della malattia; la seconda consiste nella riduzione dell’infettività degli individui vaccinati, così da ridurre la trasmissione del virus nella popolazione. Un valido esempio è costituito dal vaccino antinfluenzale: inizialmente questo era rivolto esclusivamente agli anziani (categoria a rischio), puntando alla loro protezione diretta. Più recentemente si è invece capito che vaccinare tutta la popolazione aggiunge un livello di protezione indiretta, in quanto viene ridotta la contagiosità della malattia. In questo modo si aumenta il livello di protezione della categoria a rischio. Poiché i vaccini antinfluenzali inducono risposte immunitarie più deboli e di breve durata negli anziani rispetto ai giovani adulti, aumentare la protezione indiretta è stata una strategia efficace per ridurre la diffusione del virus.

In questo articolo vi racconto come vengono impostati gli studi di popolazione per valutare l’efficacia dei vaccini e le loro limitazioni.

Gli studi clinici di fase 3 per un vaccino sono progettati per misurare la sua efficacia e sicurezza a livello individuale. Per valutare l’efficacia di un vaccino, si contano i casi di malattia sintomatica confermata in un gruppo di volontari vaccinati e in un gruppo di volontari che hanno invece ricevuto un placebo (il gruppo di controllo). Nessuno dei partecipanti allo studio conosce il gruppo di appartenenza. Se il numero di casi di malattia è statisticamente maggiore nel gruppo di controllo, allora il vaccino viene considerato efficace.

Come abbiamo visto, insieme alla protezione diretta (dalla malattia sintomatica), esistono anche parametri secondari da considerare, come un’eventuale infezione asintomatica del soggetto vaccinato (che solitamente non viene considerata dallo studio in quanto non è rilevata), la contagiosità dell’individuo vaccinato e la protezione diretta nei sottogruppi specifici (per esempio quelli a rischio). Spesso questi dati sono di difficile misurazione, vediamo perché.

Negli studi sull’efficacia dei vaccini, un gruppo di partecipanti viene diviso casualmente in due gruppi, uno che riceve il vaccino e uno il placebo. Nessun partecipante conosce il gruppo di appartenenza. L’efficacia viene calcolata contando i casi di malattia sintomatica (omini rossi) in ciascun gruppo. Se il numero di casi è statisticamente maggiore nel gruppo di controllo (placebo), allora il vaccino viene considerato efficace, in quanto ha un effetto protettivo. Gli individui con infezione asintomatica (omini gialli) non sono solitamente calcolati, a meno che lo studio non lo preveda. Anche la contagiosità dei soggetti infetti (omini blu, a prescindere dai sintomi) è solitamente ridotta nel gruppo vaccinato, ma la sua misurazione è molto difficile. Dettagli nel testo.

È intuibile che l’efficacia di un vaccino in una determinata categoria di persone (come i soggetti più a rischio) influisca sulla protezione della popolazione in generale. Tuttavia, se non studiati specificamente, i trial clinici non sono strutturati per stabilire l’efficacia nei singoli sottogruppi. Infatti, gli studi randomizzati (placebo vs. vaccino in volontari ignari del gruppo di appartenenza) possono fornire delle stime iniziali al riguardo, ma che avranno ampi margini di variabilità, lasciando una sostanziale incertezza sui veri effetti nei sottogruppi ad alto rischio. Questa incertezza può essere esacerbata dal fatto che le persone ad alto rischio che partecipano allo studio sono più caute, risultando quindi meno esposte alle infezioni, e questo riduce il loro contributo alle stime sull’efficacia del vaccino nella loro categoria.

Come risolvere il problema? Esistono diverse strategie per studiare l’efficacia di un vaccino in un sottogruppo specifico. Una possibilità è l’inclusione nello studio di un numero significativo di adulti ad alto rischio e questo può essere raggiunto fissando obiettivi minimi di iscrizione per anziani e/o adulti con comorbidità (altre patologie pregresse).

Un’altra considerazione riguarda le regole di interruzione delle analisi con il trial ancora in corso. Quando le analisi preliminari suggeriscono che il vaccino funzioni e non provochi gravi effetti collaterali (come nel caso di quello della Pfizer per il COVID-19), si pone un problema etico per la selezione di nuovi candidati ai quali somministrare il placebo: in situazioni di emergenza, può diventare non etico e/o impraticabile chiedere ai partecipanti di alcuni sottogruppi di rinunciare a un vaccino già disponibile. Per risolvere questa situazione, si potrebbe decidere, prima di iniziare il trial, di proseguirlo almeno fino al raggiungimento di un certo numero di casi di malattia confermati (per la Pfizer si è deciso di proseguire fino a 164 casi di COVID-19, quindi ben oltre i 94 casi accertati ad inizio novembre 2020, quando l’efficacia del vaccino è stata confermata per la prima volta). Studi finalizzati a valutare l’efficacia e la sicurezza di un vaccino a lungo termine possono generare valutazioni più affidabili sugli effetti specifici dell’età.

I vaccini che riducono i sintomi della malattia possono anche ridurne l’infettività, sia riducendo direttamente la carica virale, sia contrastando i sintomi che promuovono la diffusione del virus (ad esempio, tosse e starnuti). Ma questa non è una regola e infatti l’infettività va misurata insieme all’efficacia del vaccino.

Per valutare l’impatto di un vaccino sull’infettività di un virus, alcuni studi esaminano la quantità e la durata della diffusione virale in partecipanti sintomatici. Tuttavia, per definizione questo esclude i partecipanti asintomatici. Per misurare la carica virale (quantità del virus nell’organismo) nei partecipanti allo studio, è necessario condurre test virali frequenti (settimanali), indipendentemente dai sintomi, al fine di individuare il periodo di infettività acuta (quando la persona è contagiosa). La sperimentazione del vaccino Oxford-AstraZeneca sta testando settimanalmente i partecipanti nel Regno Unito indipendentemente dai sintomi, ma questo non avviene in altri studi (come quello della Pfizer). Tuttavia, sebbene i test settimanali possano fornire delucidazioni circa la carica virale nelle persone vaccinate, non forniscono risposte chiare sull’effetto del vaccino nel prevenire la diffusione del virus, né sulla relazione tra carica virale e infettività.

Un altro approccio per stimare l’infettività senza dover estrapolare la carica virale (i test richiedono tempo e sono costosi, se applicati ad una popolazione intera) consiste negli studi sui nuclei familiari, ovvero nel tracciamento dei membri della famiglia e degli altri contatti stretti.

Altri parametri che gli studi clinici devono valutare riguardano la sicurezza a lungo termine del vaccino (quindi è sempre necessaria un’attività di farmacovigilanza), la durata della protezione fornita, l’efficacia di un dosaggio inferiore, il livello di protezione contro infezioni gravi e morte e la potenziale evasione immunitaria del virus. Tutti questi parametri possono essere studiati solo dopo mesi o anni dalla commercializzazione del vaccino.

È normale che diversi vaccini contro la medesima malattia abbiano caratteristiche diverse tra loro. Uno può offrire una migliore protezione diretta alle categorie a rischio (gli anziani faticano a sviluppare l’immunità più della popolazione giovane), invece un altro potrebbe ridurre maggiormente la contagiosità delle persone. Per quanto riguarda i vaccini che ci proteggeranno dal COVID-19, la situazione non sarà diversa. In base a tali caratteristiche, essi verranno distribuiti strategicamente in modo da ottenere il massimo beneficio per tutta la popolazione. Al fine di raggiungere un tale livello di conoscenza dei vaccini, sarà però necessario proseguire gli studi sulla popolazione per svariati mesi dopo la loro distribuizione su larga scala.

Fonte

https://science.sciencemag.org/content/370/6518/763