Il 2 dicembre 1943, l’aviazione tedesca attaccò il porto di Bari. L’assalto costò la vita ad almeno 1000 persone e portò all’affondamento di 17 navi. Una di esse, la statunitense John Harvey, trasportava 2.000 bombe cariche di iprite (un gas letale noto anche come “gas mostarda” per l’intenso odore di senape che emanava).
Durante l’affondamento, il gas (che era conservato in forma liquida) si mescolò con il carburante che fuoriusciva dalle petroliere, creando così una chiazza mortale che venne a contatto con la pelle dei marinai, mentre nuotavano verso la salvezza. Quella prima notte, si credeva erroneamente che le centinaia di sopravvissuti che erano saltati in acqua soffrissero solo di shock post-traumatico. Così ricevettero morfina, furono avvolti in coperte calde e lasciati nelle loro uniformi impregnate d’olio tossico per 12-24 ore, mentre solo i feriti gravi furono assistiti. Ovviamente, nessuno era a conoscenza della gravità della situazione. La verità emerse brutalmente quando i sopravvissuti iniziarono ad agonizzare dopo qualche ora, o dopo alcuni giorni. Così, gli infermieri si trovarono con i reparti pieni di pazienti gonfi, con vesciche grandi come palloni e temporaneamente ciechi. Dei 617 marinai esposti alla terribile miscela, ben 83 morirono.

Non sapendo come gestire quei pazienti, venne chiamato a Bari un medico militare statunitense, Stewart Alexander, esperto di armi chimiche. Il carico mortale conservato nel porto di Bari era un segreto gelosamente custodito. Infatti, il Protocollo di Ginevra aveva vietato l’uso delle armi chimiche nel 1925. Quel carico sarebbe stato utilizzato solo in caso di necessità di rappresaglia, qualora Hitler avesse fatto ricorso alle armi chimiche per primo. Così, il dottor Alexander da un lato si sforzava di curare i suoi pazienti, mentre dall’altro discuteva con i funzionari militari che cercavano di insabbiare l’incidente. L’11 dicembre 1943, Alexander informò la sede centrale delle sue scoperte: le vittime avevano subito un’esposizione prolungata a causa dell’immersione in una soluzione tossica di gas mostarda e olio sulla superficie dell’acqua. Chiaramente aveva fatto centro, ma la risposta ricevuta fu spiazzante: mentre Eisenhower accettò la diagnosi, Churchill si rifiutò di ammettere la presenza di gas mostarda nel porto di Bari. Siccome la guerra in Europa stava entrando in una fase critica, gli alleati accettarono infine di censurare il disastro chimico, per evitare che Hitler cogliesse l’occasione per usare le sue scorte di Tabun (gas nervino): ogni menzione di gas mostarda fu così rimossa dalla documentazione ufficiale e la diagnosi di Alexander cancellata dalle cartelle mediche. Tuttavia, il rapporto del medico venne ugualmente diffuso tra alcuni ricercatori militari. Questo accese la miccia che stimolò gli sforzi per trovare un trattamento chimico per il cancro.
Ma cosa aveva scoperto esattamente, il dottor Alexander? E cosa c’entra il cancro?
Analizzando il sangue dei pazienti, aveva notato che la miscela di olio e gas mostarda aveva distrutto i loro globuli bianchi (le cellule del sistema immunitario). Il medico aveva osservato effetti simili in alcuni studi sugli animali esposti ad agenti simili, che aveva condotto prima della guerra. Quegli studi avevano dato speranza che alcune sostanze chimiche fossero in grado di eliminare i globuli cancerosi nei pazienti affetti da leucemie e linfomi.
Arrivati a questo punto, bisogna compiere un piccolo passo indietro e riportare che l’ispirazione iniziale per la chemioterapia non è arrivata da Bari. Infatti, i ricercatori della Yale University di New Haven (Connecticut, USA) avevano trattato per la prima volta il cancro con mostarde azotate nel 1942: il paziente in cura soffriva di linfosarcoma e morì prima che i tedeschi attaccassero il porto di Bari. Il rapporto di Alexander fu però determinante a convincere i ricercatori del valore e della solidità dell’approccio chimico per la cura del cancro.

Dopo il dottor Alexander, un altro medico, Cornelius “Dusty” Rhoads, svolse un ruolo fondamentale nella diffusione della chemioterapia. Rhoads fu un personaggio ben più controverso del primo, ma esercitò ugualmente un’influenza significativa nella ricerca sulle chemioterapie, verso le quali lo scetticismo degli altri medici era dilagante. All’epoca, la cura del cancro era cambiata poco da quando Ippocrate (460–370 a.C.) aveva menzionato la malattia e scritto “a quello che i farmaci non cureranno, ci penserà il coltello“. Infatti, fino agli anni ’50, la chirurgia e le radiazioni erano le uniche opzioni di trattamento e il cancro era così letale che ai pazienti spesso non veniva nemmeno comunicata la diagnosi.
La leadership di Rhoads, infervorata dal rapporto di Alexander, e un’aggressiva raccolta fondi portarono, a metà degli anni ’50, ai primi sforzi su larga scala per lo screening di nuovi farmaci contro il cancro e per testarli sui pazienti. Inizialmente, i medici furono euforici nel vedere che i primi pazienti rispondevano alla chemioterapia, ma la felicità presto lasciò spazio alla delusione quando, di volta in volta, il successo iniziale veniva seguito, poche settimane o mesi dopo, dalla recrudescenza del cancro.
Questi fallimenti e la tossicità della chemioterapia rinvigorirono i suoi detrattori. La critica principale era che quelle sostanze chimiche non sarebbero mai riuscite a uccidere solo le cellule tumorali, risparmiando quelle sane, poiché la somiglianza tra le due è troppa e pertanto risultano indistinguibili per un farmaco non specifico (critica peraltro corretta). Nonostante ciò, Rhoads aveva piantato i semi dai quali è poi germogliata la ricerca sul cancro che continua ancora oggi. Ora abbiamo risme di dati sulla sequenza del DNA che descrivono le differenze genetiche tra le cellule tumorali e quelle sane. La ricerca di farmaci più specifici è ben avviata e i candidati molteplici. Alcuni farmaci sono meno tossici, somministrati a dosi più basse o più mirati nei loro effetti, anche se i vantaggi sono ancora troppo spesso temporanei.
In effetti una parte molto notevole dei progressi scientifici – e soprattutto in campo medico – provengono dal campo militare. Anche la “pill-cam” messa a punto in Israele arriva dritta dritta dall’esercito, anche se non ricordo quale fosse il punto di partenza.
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