Per quanto oggi l’anestesia venga data quasi per scontata, la sua invenzione è un traguardo relativamente recente nella storia della medicina. Prima del XIX secolo, il dolore fisico era una componente ineludibile della chirurgia e delle malattie, affrontata con soluzioni empiriche, spesso inefficaci o addirittura pericolose. Eppure, ogni civiltà ha sviluppato nel tempo strategie complesse per alleviare la sofferenza, combinando conoscenze botaniche, intuizioni farmacologiche, rituali religiosi e – talvolta – metodi estremamente brutali.

Le origini

Fin dalla preistoria l’uomo cercò di lenire il dolore con mezzi naturali e rituali: si bagnavano le ferite con acqua fredda, cenere calda o piante officinali (ad es. Valeriana, Papavero selvatico). In molte culture l’afflizione era interpretata in chiave soprannaturale: sacerdoti e sciamani, considerate figure medianiche fra il visibile e l’invisibile, assumevano il ruolo di guaritori, mentre la sofferenza era vista come una punizione divina o uno squilibrio spirituale. Le prime “anestesie” elementari consistevano quindi in rimedi empirici (erbe narcotiche, vinacce, impacchi ghiacciati) o tecniche fisiche (compressori toracici o torniquet) appresi dall’osservazione degli animali (ad es. leccarsi le ferite) e dal fisiologico istinto di attenuare il dolore. Per esempio, 5.000 anni fa gli Assiri praticavano lo strangolamento medico, comprimendo forte le arterie carotidi fino all’incoscienza per anestetizzare il paziente. Analogamente, sigillando braccia o arti con laccio stringente si otteneva un’ipossia locale di breve durata, riducendo la sensibilità nell’area interessata.

Nel mondo dell’antico Egitto, la medicina era sorprendentemente evoluta, tanto da affiancare a una pratica clinica dettagliata una forte componente magico-religiosa. I principali testi medici dell’epoca, come il papiro Ebers (ca. 1550 a.C.) e il papiro Edwin Smith (ca. 1600 a.C.), testimoniano una conoscenza approfondita del corpo umano, della diagnosi e del trattamento di numerose patologie. Il dolore, tuttavia, non era considerato esclusivamente un fenomeno fisiologico. Spesso veniva interpretato come il risultato di forze soprannaturali, maledizioni o intrusioni di spiriti maligni. Per questo, i trattamenti associavano rimedi farmacologici a formule magiche, preghiere e rituali esorcistici. Gli Egizi utilizzavano numerose sostanze di origine vegetale con effetti calmanti, alcune delle quali riconosciute oggi per le loro proprietà farmacologiche:

  • Oppio (Papaver somniferum): probabilmente introdotto in Egitto attraverso rotte commerciali mediorientali, veniva usato per ridurre il dolore e facilitare il sonno.
  • Mandragora (Mandragora officinarum): potente narcotico, spesso mescolata al vino per ottenere un effetto sedativo.
  • Mirra, incenso, aloe e miele: usati in unguenti e impacchi, avevano proprietà lenitive, antibatteriche e cicatrizzanti.
  • Birra e vino: consumati in abbondanza anche a scopo analgesico, talvolta in combinazione con erbe medicinali.

Antica Grecia e Impero Romano

I medici greci, come Ippocrate (V sec. a.C.), e successivamente quelli romani, come Galeno (II sec. d.C.), iniziarono a considerare il dolore in termini più razionali, pur restando privi di strumenti efficaci per eliminarlo. I rimedi farmacologici erano simili a quelli egizi, ma più sistematizzati.

  • Ippocrate consigliava l’uso del vino caldo come antidolorifico.
  • Galeno menzionava l’uso della mandragora per indurre uno stato di torpore prima degli interventi.
  • L’aceto freddo veniva talvolta utilizzato per ridurre il gonfiore.

In chirurgia, il dolore veniva affrontato con la stessa franchezza della guerra: il paziente veniva legato, sedato con vino e mandragora, e si procedeva il più rapidamente possibile. In alcuni casi si usava il freddo (neve o ghiaccio, conservati in ghiacciaie sotterranee) per intorpidire la zona da operare, ma solo tra le classi più agiate.

Il medico romano Celso, nel I secolo d.C., raccomandava l’uso di un bicchiere di vino dolce prima di un’operazione dolorosa; allo stesso tempo sottolineava la stoica fermezza del chirurgo, che “deve essere giovane, coraggioso, risoluto e non turbato dalle grida del malato”. In sostanza, fino all’età imperiale romana si privilegiarono analgesici vegetali (oppiacei, spezie narcotiche, vino medicato) e tecniche di soppressione del dolore localizzato (impacchi freddi o pietre refrigeranti come la “pietra di Melfi” strofinata sulle membra).

Panoramica geografica e culturale

In India, i trattati sanscriti come il Sushruta Samhita (ca. VI sec. a.C.) descrivono oltre 100 strumenti chirurgici e numerosi metodi per alleviare il dolore, tra cui pratiche di respirazione e meditazione per la sopportazione del dolore e vino medicato e cannabis come sedativi.

Invece, la medicina tradizionale cinese sviluppò tecniche molto diverse: l’uso di erbe analgesiche come il ginseng, la scutellaria e la peonia bianca, e l’agopuntura (nata almeno nel I millennio a.C.), che veniva usata per riequilibrare l’energia del corpo e ridurre il dolore.

Nell’Africa subsahariana e in molte tribù amerindie l’approccio mescolava ritualità sciamanica e medicina erboristica: si usavano ad esempio bevande allucinogene o antidolorifici naturali (khat, iboga, peyote, betel) in rituali mistici per alleviare il dolore.

Gli Incas eseguivano trapanazioni craniche sopravvivendo spesso all’intervento; analisi archeologiche mostrano che i guaritori Inca applicavano piante medicinali e analgesici naturali durante l’operazione.

In sintesi, ovunque il dolore era affrontato con una combinazione di tecniche mediche, rimedi naturali, superstizioni e riti: l’idea che il dolore fosse intrinseco alla vita umana dominava fino all’età moderna.

Medioevo cristiano e mondo islamico

Nel Medioevo occidentale, la medicina conobbe una regressione: la cura del corpo era subordinata alla salvezza dell’anima. Il dolore veniva talvolta interpretato come una prova divina o una punizione per i peccati. Le pratiche chirurgiche, sebbene rudimentali, però continuavano: amputazioni, cauterizzazioni e trattamenti per ferite da guerra venivano eseguiti da cerusici e barbieri-chirurghi. La cauterizzazione era uno dei pochi strumenti efficaci per fermare il dolore acuto o il sanguinamento, benché fosse una tecnica terrificante. Veniva impiegata per fermare emorragie, disinfettare ferite, rimuovere tessuti necrotici o “trattare” infezioni. Era effettuata tramite l’applicazione diretta di strumenti roventi sulla parte del corpo interessata. Era considerata una delle poche tecniche chirurgiche efficaci in un’epoca in cui mancavano gli antibiotici e l’anestesia.

Alcuni monaci conservarono e tradussero testi antichi, soprattutto arabi, che permisero di mantenere in vita una base di sapere farmacologico: erbe come la valeriana, l’oppio e la belladonna continuarono a essere utilizzate nei monasteri e negli orti dei conventi.

Nel mondo islamico, tra il IX e il XIII secolo, la medicina fiorì grazie all’opera di studiosi come Avicenna (Ibn Sina) e Al-Razi, che sistematizzarono il sapere greco-romano e introdussero innovazioni proprie.

  • Avicenna descrisse nel suo Canone della Medicina l’uso della spongia soporifera, una spugna imbevuta di oppio, hashish e mandragora da far inalare al paziente prima di un intervento chirurgico.
  • Vennero impiegati anche oli essenziali, essenze vegetali e decotti narcotici.

Queste tecniche rappresentano i più chiari precursori dell’anestesia vera e propria.

Rinascimento e prima età moderna

Durante il Rinascimento, la medicina e la chirurgia vissero una fase di rinnovato interesse scientifico e sperimentale, ma la cauterizzazione continuò a essere ampiamente praticata, sebbene con un approccio più critico e razionale. Grazie alla riscoperta dei testi classici e al confronto diretto con la natura, i medici iniziarono a mettere in discussione molte pratiche medievali, promuovendo una medicina maggiormente fondata sull’osservazione e sull’esperienza. Chirurghi come Ambroise Paré (1510–1590), in Francia, giocarono un ruolo fondamentale nel ridurre l’uso del cauterio: celebre è il suo rifiuto di cauterizzare le ferite da arma da fuoco con olio bollente — come si usava all’epoca — preferendo una mistura lenitiva a base di olio di rose, tuorlo d’uovo e trementina, che produsse risultati nettamente migliori. Paré contribuì così ad avviare il superamento della cauterizzazione brutale, sostituendola con metodi più efficaci e umani. Nonostante questi progressi, il cauterio rimase in uso per tutto il XVI secolo, soprattutto nei contesti bellici o in assenza di alternative, ma sempre più subordinato alla nuova logica di cura centrata sul paziente e sulla guarigione piuttosto che sulla distruzione del male tramite il fuoco.

In questo periodo, alla spongia soporifera si aggiunsero altri analgesici importati da luoghi esotici. Dopo la scoperta dell’America si introdussero in Europa le foglie di coca, che gli indigeni già masticavano per diminuire il dolore e la stanchezza, e il curaro (dalla liana amazzonica Strychnos toxifera) usato come paralizzante muscolare dagli Indios. Nel XVI-XVII secolo la chimica di Paracelso portò alla creazione del laudanum, una tintura di oppio in alcool, resa celebre da Thomas Sydenham nel 1660. Alle teorie aristoteliche del fuoco, dell’aria, della terra e dell’acqua, Paracelso aggiunse infatti le sue, secondo cui tutte le cose erano costituite di tre elementi principali – mercurio, sale e zolfo – e che le diverse malattie potevano essere ricondotte ad anomalie nel loro equilibrio.

Fino a questo periodo storico, ogni intervento chirurgico fu inevitabilmente associato a un dolore atroce, vissuto a piena coscienza dal paziente. L’assenza di anestetici efficaci rendeva ogni operazione una prova brutale di resistenza, sia per chi la subiva che per chi la eseguiva. I pazienti venivano immobilizzati con la forza, legati al tavolo operatorio o trattenuti da assistenti, e talvolta storditi con un colpo in testa o inebriati con forti dosi di alcol, oppio o altre sostanze narcotiche rudimentali. In molti casi, tuttavia, nulla riusciva a sopprimere davvero la percezione del dolore. Per questo motivo, l’abilità del chirurgo non si misurava tanto sulla precisione o sull’igiene — ancora poco comprese — quanto sulla velocità di esecuzione: un’amputazione ben riuscita in meno di un minuto era motivo di prestigio. All’epoca, il miglior chirurgo era considerato colui che riusciva a completare l’operazione prima che il paziente morisse per lo shock o si divincolasse troppo, e che non si lasciava distrarre dalle urla lancinanti provenienti dal tavolo operatorio. Era una medicina del coraggio e della brutalità, in cui la sopravvivenza dipendeva più dalla rapidità del bisturi che dalla dolcezza della cura.

Prime forme di anestesia chimica e meccanica

Il vero punto di svolta nella storia della chirurgia e della gestione del dolore si verificò soltanto tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, quando si cominciò a comprendere che alcuni gas e vapori potevano indurre uno stato di incoscienza controllata. Nel 1772, il chimico inglese Joseph Priestley isolò per la prima volta l’ossido nitroso, noto anche come “gas esilarante”. Qualche decennio più tardi, Humphry Davy, sperimentando personalmente gli effetti della sostanza, osservò che poteva avere proprietà analgesiche, ossia ridurre sensibilmente la percezione del dolore. Nonostante queste intuizioni, ci volle ancora tempo prima che tali scoperte trovassero applicazione concreta in ambito chirurgico.

La vera rivoluzione avvenne il 16 ottobre 1846, quando il dentista statunitense William T. G. Morton eseguì con successo la prima anestesia chirurgica riconosciuta: durante un intervento al Massachusetts General Hospital, fece inalare al paziente etere etilico, permettendo al chirurgo John Collins Warren di rimuovere un tumore dal collo senza che il paziente avvertisse dolore. L’evento, destinato a cambiare per sempre la medicina, fu accolto con entusiasmo e scetticismo allo stesso tempo, ma si diffuse rapidamente in tutto il mondo occidentale.

Negli anni successivi furono introdotti altri agenti anestetici, tra cui il cloroformio, utilizzato per la prima volta nel 1847 dallo scozzese James Young Simpson, che lo sperimentò su sé stesso e ne promosse l’uso anche in ostetricia, nonostante i rischi tossici. La gamma delle tecniche anestetiche si ampliò, includendo progressivamente anestesia inalatoria, per iniezione e, più tardi, anestesia locale, aprendo la strada alla chirurgia moderna.

Dopo millenni in cui il dolore chirurgico era considerato inevitabile — un fardello da sopportare con fatalismo e forza — l’introduzione di etere, cloroformio e ossido nitroso segnò una vera e propria rivoluzione culturale e scientifica: per la prima volta, si poteva operare senza dolore, salvando vite non solo dal punto di vista fisico, ma anche da quello psicologico. La medicina, grazie all’anestesia, compì un balzo epocale verso il futuro.