Le competizioni sportive sono state in base al sesso in nome dell’equità, ma le regole attuali sono adatte allo scopo?

Nell’eccitazione di partire per le Universiadi di Kobe del 1985, in Giappone, l’ostacolista spagnola María José Martínez-Patiño si era dimenticata di mettere in valigia il suo “certificato di femminilità”, rilasciato dal medico: bisognava infatti dimostrare il proprio sesso per poter competere. Per questo motivo, in Giappone ha dovuto eseguire un semplice test biologico, che però ha prodotto un risultato inatteso, costringendola a svolgere un test più approfondito, che avrebbe richiesto mesi per essere elaborato. Allora, il medico della squadra le consigliò di fingere un infortunio alla caviglia per mettere a tacere i sospetti sul perché non stesse correndo. Così si è bendata un piede e si è seduta sugli spalti per tutta la durata della competizione, chiedendosi cosa significasse il risultato di quel test.

Lo sport ha una lunga storia di controlli e requisiti per le donne che vogliono competere a livello agonistico. Negli anni ’60, furono messi in atto test obbligatori generali di “verifica del sesso“: in quel periodo, la partecipazione delle donne alle attività sportive era in aumento e molte stavano migliorando le loro prestazioni a vista d’occhio. La preoccupazione che gli uomini potessero travestirsi da donne costringevano le persone che gareggiavano in eventi femminili a sottoporsi a un umiliante esame visivo e fisico da parte di una giuria di medici.

Nel 1968, il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) ha adottato un test diverso per determinare il sesso, basato sui cromosomi. Le persone di solito hanno 46 cromosomi disposti in 23 coppie. Una di queste coppie differisce a seconda del sesso biologico dell’individuo: le donne hanno tipicamente due cromosomi X, mentre gli uomini hanno tipicamente un cromosoma X e uno Y. Errori genetici, mutazioni e interazioni tra DNA e ormoni possono tuttavia causare una serie di alterazioni a questa disposizione canonica. Sebbene i cromosomi di una persona possano indicare un sesso, la loro anatomia potrebbe suggerire il contrario. Questo è un fenomeno noto come intersessualità o differenze di sviluppo sessuale (DSS).

Il test basato sui cromosomi richiesto dal CIO prevedeva il prelievo di cellule dall’interno della guancia. In una cellula contenente due cromosomi X, un cromosoma è inattivo e quindi si presenta al microscopio come una macchia scura nel nucleo, nota come corpo di Barr. Il test cromosomico di Martínez-Patiño ha rivelato che aveva un corredo cromosomico XY, quindi era cromosomicamente maschio. Ulteriori esami hanno mostrato che sebbene i suoi lineamenti esteriori fossero tipicamente femminili, aveva i testicoli interni. Le sue cellule, tuttavia, non erano in grado di produrre testosterone, che altrimenti avrebbe prodotto la tipica anatomia maschile. Le fu quindi diagnosticata una condizione nota come “sindrome da insensibilità agli androgeni completa”. In seguito al risultato del test, la sua federazione le ha chiesto di ritirarsi dallo sport in silenzio. Lei ha però deciso di agire diversamente, scegliendo di competere nei campionati spagnoli di atletica leggera nel 1986. Ha pagato il prezzo in seguito, quando la sua cartella clinica è trapelata ai media, rovinandole la vita: è stata esclusa dalla competizione e le sono state revocate la borsa di studio universitaria, le medaglie e i record. Senza darsi per vinta, con il supporto di diversi scienziati, Martínez-Patiño ha dimostrato alla commissione medica di quella che allora era chiamata International Amateur Athletic Federation (IAAF) che non aveva alcun vantaggio ingiusto rispetto alle altre atlete. Nel 1988, la sua licenza per competere venne ripristinata, ma era troppo tardi per il suo sogno olimpico.

Ancora prima che l’analisi cromosomica fosse introdotta per determinare il sesso nello sport, i genetisti avevano avvertito circa la sua inaffidabilità, e sul fatto che fosse discriminatoria e inadatta per individuare persone che avrebbero potuto trarre un vantaggio “ingiusto” nella categoria femminile. Il dogma che la presenza di più cromosomi X indichi l’essere femmina non identificherebbe, ad esempio, circa lo 0,2% degli uomini nati con genetica XXY (47 cromosomi totali). Allo stesso modo, non identificherebbe le donne con condizioni ormonali che possono causare loro un aumento muscolare, come l’iperplasia surrenalica congenita.

Nel corso dei decenni, i regolamenti degli organi di governo dello sport si sono evoluti nel tentativo di garantire che una persona, per partecipare come donna, debba essere una “femmina biologica”. L’attuale definizione di donna biologica da parte della World Athletics si basa in gran parte sui livelli di testosterone, ma alcuni ricercatori dubitano circa la validità dell’uso di questo ormone per distinguere gli atleti. Più in generale, il processo di classificazione in base al sesso continua tutt’oggi a sollevare questioni complesse sull’etica medica e sui diritti umani.

Modifica delle normative

Le DSS sono rare, ma si è scoperto che sono più comuni tra le atlete, che tra le donne in generale: uno studio ha rilevato che circa 7 atlete su 1.000 erano XY, una prevalenza che è circa 140 volte superiore rispetto alla popolazione femminile generale. Le donne con questa modifica genetica possono produrre alti livelli di testosterone. Conosciuto come iperandrogenismo, questo può anche derivare da altre condizioni, come la sindrome dell’ovaio policistico e l’iperplasia surrenalica congenita. Il testosterone rende i muscoli più grandi, rafforza le ossa e aumenta i livelli di emoglobina che trasporta ossigeno nel sangue, tanto che la sua forma sintetica è utilizzata nel doping. Il livello tipico di testosterone nelle donne varia da 0,12 a 1,79 nanomoli/litro, mentre negli uomini adulti varia da 7,7 a 29,4 nanomoli/litro. Questa differenza si manifesta dopo la pubertà, quando gli uomini producono in genere molto più testosterone rispetto alle donne. Il testosterone è il motore principale che spiega la differenza tra le prestazioni maschili e femminili.

Nel 2011, la World Athletics è diventata la prima federazione sportiva internazionale ad adottare regolamenti che disciplinano l’idoneità alla competizione delle donne con iperandrogenismo, sottolineando che non si tratta di una forma di test sessuale. Le regole adottate dalla World Athletics significavano che, per competere negli eventi femminili, le persone dovevano abbassare i loro livelli di testosterone nel sangue al di sotto di 10 nanomoli/litro mediante trattamento ormonale o intervento chirurgico. Martínez-Patiño, che faceva parte della commissione medica del CIO che ha adottato regole simili nel 2012, afferma che, sebbene non fosse una soluzione perfetta, è stato un miglioramento rispetto ai tentativi passati di garantire l’equità nello sport femminile.

Tuttavia, questa regolamentazione non ha risolto il problema: nel 2014, alla vigilia dei Giochi del Commonwealth a Glasgow, nel Regno Unito, la velocista indiana Dutee Chand ha scoperto che il suo livello di testosterone nel sangue era superiore alla soglia delle 10 nanomoli. Piuttosto che optare per la terapia ormonale o la chirurgia, come probabilmente hanno fatto altre atlete in questo periodo, ha preferito combattere la sentenza presso il tribunale arbitrale dello sport. Nel luglio 2015, la corte si è dichiarata favorevole e ha concesso alla World Athletics due anni per presentare prove scientifiche più chiare sul fatto che il testosterone naturale fornisca un vantaggio atletico. Nel frattempo, le regole sull’iperandrogenismo sono state sospese, consentendo a Chand e alle donne con DSS di competere senza restrizioni.

Controversie

I tentativi di utilizzare il testosterone come indicatore del fatto che un individuo possa competere in un evento femminile o abbia un vantaggio sportivo ingiusto sono stati oggetto di molte critiche. Un’obiezione è che i livelli tipici di testosterone per uomini e donne potrebbero non essere così distinti come sembrava inizialmente. Infatti, uno studio del 2014 su 693 atleti di sesso femminile e maschile d’élite in 15 sport ha riscontrato una significativa sovrapposizione nei livelli di testosterone tra i due gruppi. Circa il 14% delle donne aveva livelli superiori a quello che è considerato il tipico range femminile e alcune addirittura avevano livelli considerati alti per un uomo. D’altro canto, circa il 17% degli uomini aveva livelli di testosterone al di sotto del tipico range maschile.

Un’altra delle principali preoccupazioni è la mancanza di prove dirette che colleghino alti livelli di testosterone nelle donne a un vantaggio competitivo. Tra gli atleti d’élite, i concorrenti nelle categorie maschili sembrano correre o nuotare il 10-12% più velocemente di quelli che gareggiano nelle categorie femminili e saltano il 20% più lontano o più in alto. Ma non è chiaro quanto il testosterone contribuisca a queste differenze. Questa incertezza è stata fondamentale per la decisione della corte di accogliere l’appello di Chand. Nel caso delle donne con DSS, alcune prove supportano l’idea che livelli elevati di testosterone forniscano un beneficio: tre corridori di distanza sottoposti a terapia ormonale hanno visto le loro prestazioni calare di quasi il 6% nel corso di due anni.

Uno studio, finanziato da World Athletics e World Anti-Doping Agency, ha rilevato che le atlete d’élite con i più alti livelli di testosterone hanno ottenuto risultati migliori del 3% negli eventi rispetto a quelle con i livelli più bassi. Questi risultati hanno costituito la base di nuove normative nel 2018, che richiedono alle donne che gareggiano in determinati eventi di avere livelli di testosterone inferiori a cinque nanomoli/litro per almeno sei mesi prima di una competizione. Anche questi regolamenti sono stati criticati per essere indebitamente discriminatori, in quanto le regole escludono esplicitamente le donne con alti livelli di testosterone a causa della sindrome dell’ovaio policistico – la causa più comune di un alto livello di testosterone – e le donne con iperplasia surrenalica congenita. Inoltre vengono applicati solamente a determinate discipline. Nel 2019, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha condannato i regolamenti dell’anno precedente per non essere “ragionevoli e oggettivi” e la World Medical Association ha esortato i medici a non prendere parte all’attuazione delle nuove regole, sostenendo che violano l’etica medica e i diritti umani.

Nel 2020, l’organizzazione internazionale di difesa dei diritti umani Human Rights Watch ha documentato i danni fisici, sociali e psicologici inflitti alle donne i cui risultati dei test hanno portato alla squalifica dagli eventi. L’atleta indiana Santhi Soundarajan, ad esempio, ha tentato di togliersi la vita dopo che i risultati di un test sessuale sono stati divulgati ai media nel 2006. Un’altra atleta indiana si è suicidata nel 2001 dopo aver scoperto i risultati del suo test.

Cosa succederà in futuro?

Un punto di vista interessante è quello di Alun Williams, genetista sportivo presso la Manchester Metropolitan University (Regno Unito), il quale afferma che le donne con DSS e iperandrogenismo non dovrebbero essere trattate in modo diverso da quelle con qualsiasi altro tratto genetico che aumenta le capacità atletiche. Il celebre sciatore di fondo finlandese Eero Mäntyranta, che ha vinto tre medaglie d’oro all’inizio degli anni ’60, aveva una mutazione genetica che aumentava la capacità di trasporto dell’ossigeno dei suoi globuli rossi del 25-50%, con un impatto determinante sulle sue vittorie. Inoltre, le mutazioni riscontrate negli atleti DSS non influenzano le prestazioni in misura drastica. Sebbene sembri che il testosterone migliori leggermente le prestazioni atletiche, queste donne non usano farmaci che migliorano le prestazioni, quindi sarebbe ingiusto impedire loro di gareggiare.

Alcuni ricercatori suggeriscono di porre fine alla segregazione sessuale nello sport individuale e di adottare un sistema simile a quello utilizzato nello sport per disabili. Le categorie potrebbero essere basate sulle caratteristiche fisiche richieste in un particolare sport. Ad esempio, i velocisti potrebbero competere contro quelli con la stessa massa muscolare e simile percentuale di fibre a contrazione rapida, o atleti di resistenza in base a massa muscolare e capacità polmonare. L’implementazione di un tale sistema sarebbe difficile, poiché anche i sistemi in atto nello sport per disabili non sono privi di critiche.

Altri propongono l’introduzione di una terza categoria, accanto agli eventi maschili e femminili, per gli atleti con DSS. La World Athletics ha già previsto tale categoria nei loro regolamenti, ma potrebbe volerci tempo per vederla concretizzare, in quanto potrebbe portare alla stigmatizzazione degli atleti.

Martínez-Patiño, ora ricercatrice in scienze sportive presso l’Università di Vigo in Spagna, concorda sul fatto che solo prove scientifiche concrete risolveranno questo dibattito, così come hanno contribuito a ribaltare il suo divieto di gareggiare. Tuttavia, lo scenario sembra andare ben oltre l’ambito scientifico, coinvolgendo anche una complessa prospettiva etica, giuridica e dei diritti umani.

Fonte

https://www.nature.com/articles/d41586-021-00819-0