Oggi vi parlo di un’inaspettata correlazione tra l’uomo di Neanderthal e le compicanze del COVID-19. Sembra assurdo? Vediamo insieme perché non lo è.

Per comprendere il discorso, devo prima introdurre la predisposizione genetica. Ne avrete sicuramente sentito parlare, ad esempio in relazione a patologie ereditarie. Sappiamo che le persone hanno un’identità del DNA maggiore del 99%. Il restante 1% determina invece tutte le caratteristiche che ci contraddistinguono: l’aspetto fisico, le abilità fisiche e mentali, e anche la predisposizione alle malattie genetiche* (quindi non quelle provocate da virus, batteri o parassiti). Potremmo definire questo 1% di DNA come il nostro codice a barre personalizzato, unico al mondo (a meno che non abbiamo un gemello omozigote). In questa minuscola frazione del DNA sono presenti, oltre alle informazioni che contribuiscono a renderci unici, anche altri elementi con una funzione più nascosta, talvolta non ancora identificata. Addirittura, una fetta di popolazione possiede, in questo 1%, anche residui di DNA dell’uomo di Neanderthal. Siete sorpresi? Allora sappiate che circa l’1–4% del nostro genoma proviene dagli antenati dell’uomo moderno. Molti di questi geni arcaici sono dannosi per noi e sono associati a infertilità e aumento del rischio di malattie. Alcuni però sono sorprendentemente utili. Ad esempio la versione devisoniana (che deriva dall’Homo di Denisova, un ominide i cui scarsi resti sono stati ritrovati sui Monti Altaj, in Siberia) del gene EPAS1 aiuta i tibetani moderni a sopravvivere alle altitudini estreme dellHimalaya, un gene discendente dall’uomo di Neanderthal aumenta la nostra sensibilità al dolore, altri ancora ci aiutano a contrastare le infezioni virali.

Ora arriviamo al COVID-19. In uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine, è stata analizzata parte di questo 1% di DNA in pazienti gravi ospedalizzati in Spagna (775) e in Italia (835) tra marzo e aprile. L’obiettivo era quello di verificare la presenza di tratti genetici condivisi specificamente tra i pazienti gravi, e non tra quelli con sintomatologia lieve e individui asintomatici/sani. In questo modo si sarebbe potuta individuare una predisposizione genetica alla gravità della malattia. Lo studio ha permesso di individuare dei tratti genetici specifici per i pazienti gravi, sul cromosoma 3 e sul cromosoma 9. Quest’ultimo è associato al gruppo sanguigno della persona, risultando che il gruppo A è correlato ad una sintomatologia più grave, mentre quello 0 ha un effetto protettivo. I tratti genetici individuati sul cromosoma 3 sono poi stati confermati in un’altro studio condotto su 3199 pazienti, rendendoli la predisposizione genetica più rilevante finora identificata. Ma cosa si trova in questo frammento di cromosoma 3? Il 30 settembre 2020, Hugo Zeberg e Svante Pääbo hanno pubblicato su Nature uno studio nel quale hanno dimostrato che si tratta di un frammento di DNA ereditato dall’uomo di Neanderthal e presente in circa il 50% delle persone nell’Asia meridionale (soprattutto in Bangladesh) e da circa il 16% della popolazione europea. Questo segmento è quasi del tutto assente nella popolazioni africane e in quelle dell’estremo oriente. Perché questo tratto genetico è stato mantenuto in alcune popolazioni? Si ipotizza che in passato potrebbe aver avuto un effetto protettivo contro patogeni antichi, e quindi per questo essere sopravvissuto in alcune popolazioni. Però, in presenza di un’infezione da coronavirus SARS-CoV-2, la risposta immunitaria protettiva mediata da questi geni potrebbe essere troppo aggressiva, portando alla risposta immunitaria potenzialmente fatale, osservata nelle persone che sviluppano gravi sintomi di COVID-19.

Ogni bastoncino nero è una rappresentazione schematica del cromosoma 3 umano. Ogni bastoncino va inteso come un diverso paziente. I segmenti colorati rappresentano l’1% di variabilità genetica tra gli individui. Il segmento azzurro in alto simboleggia il frammento di DNA ereditato dall’uomo di Neanderthal, che si trova con bassa frequenza nella popolazione sana/asintomatica, ma con maggiore frequenza tra i pazienti ospedalizzati più gravi.

Come già scritto, però, non è solo la predisposizione genetica a determinare una caratteristica e allo stesso modo, questo tratto genomico sul cromosoma 3 non può da solo spiegare la gravità della patologia in alcune persone. Le terapie adottate, la tempestività nei trattamenti e probabilmente anche alcuni fattori ambientali hanno un ruolo altrettanto – se non più – importante.

* Le malattie genetiche si manifestano con una maggiore frequenza all’interno di alcune famiglie, dal momento che la predisposizione viene ereditata geneticamente di generazione in generazione. Avere una predisposizione genetica per una malattia, non significa essere condannati a svilupparla, ma solamente che vi è un maggior rischio di svilupparla, rispetto ad un individuo che non è predisposto. I fattori ambientali svolgono poi un ruolo cruciale: ad esempio, se una persona ha una predisposizione per il diabete, non è detto che lo svilupperà, se dovesse seguire uno stile di vita sano. Così come una persona che non è predisposta, potrebbe svilupparlo in seguito ad una vita sedentaria e ad un’alimentazione ricca di zuccheri semplici.

Fonti

https://www.nejm.org/doi/10.1056/NEJMoa2020283

https://www.nature.com/articles/s41431-020-0636-6

https://www.nature.com/articles/s41586-020-2818-3#Sec5