Nel 1984, l’UNESCO ha definito l’analfabetismo funzionale come “la condizione di una persona incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità“. Gli analfabeti funzionali sanno leggere e scrivere (quindi non sono analfabeti), ma non hanno spirito critico e tendono a credere ciecamente alle informazioni ricevute, faticano ad eseguire semplici calcoli matematici (sconti, economia domestica) e hanno una limitata conoscenza di fenomeni storici, sociali, politici ed economici, oltre a non essere in grado di comprendere il significato di un breve testo. In breve, gli analfabeti funzionali mancano delle competenze basilari richieste dalla vita quotidiana. Le cause sono complesse, legate a situazioni di subordinazione fisica, psicologica e sociale: i maggiori tassi di analfabetismo funzionale sono infatti registrati tra persone meno abbienti, che hanno subito forti stress emotivi, rischi per la salute e intimidazioni sociali. Questa piaga provoca pesanti conseguenze a livello economico (le perdite economiche causate da bassa produttività, errori e incidenti riconducibili all’analfabetismo funzionale ammontano a miliardi di dollari all’anno) e sociale (ad esempio con la diffusione di notizie false su temi medico-sanitari, oppure di pregiudizi verso determinate categorie di persone).
Tutti sappiamo che l’Italia ha uno dei tassi di analfabetismo funzionale più alti tra i Paesi occidentali (28% secondo le ultime stime). Come contrastare questo problema? Essenzialmente in due modi: 1) aumentando il numero di libri in casa (e leggerli, ovviamente) e 2) con una modernizzazione e adattamento del sistema scolastico. Un’indagine sui dati Ocse-Piaac del 2016 ha rivelato che, alla domanda “Quanti libri c’erano a casa tua quando avevi 16 anni?”, la maggior parte degli analfabeti funzionali ha risposto meno di 25 e quasi nessuno più di 100. Tuttavia, non si può costringere la gente a comprare e leggere libri. Allora, ecco che la speranza va riposta nella formazione dei giovani.
Il classico stereotipo dell’analfabeta funzionale è un individuo over 55, poco istruito e con un lavoro non qualificato. In realtà, la piaga è diffusa anche tra i giovani: sono infatti molti gli under 25 che non studiano e non lavorano, oppure in condizioni di lavoro nero o precariato (tutte situazioni predisponenti all’analfabetismo funzionale). E qui la scuola può fare la differenza. Come è ben noto, lo stato italiano spende poco per l’istruzione (il 3,5% del PIL nel 2020 è il valore più basso da quando esiste la scuola pubblica, mentre la media europea è del 4,7%), ma la storiella che mancano i soldi non regge: è infatti ampiamente dimostrato che un maggiore investimento nell’istruzione garantisce un ritorno economico ben più elevato delle spese. Bisogna inoltre trovare un modo per contrastare l’abbandono scolastico precoce e la disaffezione alla cultura da parte degli studenti: sebbene in Italia la dispersione scolastica sia in costante calo, è ancora più alta della media europea (nel 2016 il 13,8% contro la media UE del 10,7%). Questo non può essere raggiunto solamente aumentando i finanziamenti, ma è necessario ripensare da capo un sistema scolastico obsoleto e immobile, che boccheggia in una società in continua evoluzione. Il problema maggiore è rappresentato dalle scuole medie e dai primi due anni delle superiori: è questo il periodo nel quale la maggior parte degli studenti viene persa per strada, compromettendo il loro percorso formativo. Come evitare che ciò accada? Come suscitare il loro interesse per l’istruzione? Nelle prossime righe vi presenterò come la Finlandia ha deciso di aggiornare il proprio sistema formativo, che penso possa rappresentare una valida medicina al problema italiano. Il Paese nordico è sempre stato all’avanguardia in ambito educativo e ha uno dei tassi di analfabetismo funzionale più bassi tra i Paesi analizzati (l’11%).
La Finlandia ha deciso di adottare una vera e propria rivoluzione in ambito educativo, abbandonando l’insegnamento improntato sulle materie, per adottare quello basato sui fenomeni. In pratica, gli studenti non studieranno più matematica, geografia, storia, letteratura, eccetera. Nell’insegnamento basato sui fenomeni, i fenomeni olistici del mondo reale forniranno il punto di partenza per l’apprendimento. I fenomeni saranno studiati come entità complete, nel loro contesto reale, e le informazioni ad essi correlate supereranno i confini tra le materie classiche. Per esempio, qualora l’argomento di partenza fosse l’Unione Europea, si studierebbero economia, lingue, storia dei Paesi membri e geografia. Invece, nel caso si preferisca un corso vocazionale più pragmatico, verrebbero approfondite matematica, lingue, abilità comunicative e di scrittura. L’insegnamento avverrà sia online che frontalmente, sfruttando al massimo le tecnologie a disposizione. Questa strategia permetterà direttamente ai ragazzi di scegliere gli argomenti di studio, suscitando il loro interesse. Nel processo di apprendimento, verranno fornite tutte le informazioni necessarie alla comprensione del fenomeno o alla risoluzione di un problema, e questo significa che tali insegnamenti avranno un’utilità immediata. Invece, le informazioni apprese esclusivamente a livello teorico con il metodo classico (come formule di fisica imparate mnemonicamente o regole di calcolo al di fuori di un contesto reale) spesso rimangono superficiali e senza significato per gli studenti, che non ne acquisiscono una comprensione globale. L’obiettivo dell’apprendimento basato sui fenomeni è quello di presentare processi di vita lavorativa autentica in un contesto di apprendimento, che consenta agli studenti di avvicinarsi maggiormente ad un ambito che suscita il loro interesse. L’ambiente didattico dovrà essere aperto e dinamico, al fine di promuovere la collaborazione e l’utilizzo di tutti gli strumenti necessari (tradizionali o multimediali che siano), pertanto non sarà limitato ai banchi di scuola, ma coinvolgerà il mondo reale, sia fisico che online.
Gli insegnanti dovranno adattarsi a questa innovazione, dal momento che dovranno instaurare costanti collaborazioni con i colleghi di discipline diverse. Inoltre, dovranno stimolare gli studenti a sviluppare la capacità di identificare e poi risolvere problemi e a collaborare tra di loro, avvicinandoli così al mondo reale più di quanto facciano le classiche lezioni frontali. Attualmente il 70% degli insegnanti finlandesi si stanno aggiornando in preparazione a questo nuovo sistema. Dal punto di vista dell’insegnamento, questo stile è gratificante e utile anche per gli insegnanti: molti di quelli che lo hanno già implementato nel loro lavoro, affermano di non poter (né voler) tornare al vecchio sistema.
Il vantaggio dell’apprendimento per fenomeni è quello di mantenere intatto il mondo reale, invece di decontestualizzarlo, come avviene con l’insegnamento classico. Inoltre pone gli studenti al centro del progetto, invece di considerarli scatole da riempire con un programma didattico che non suscita il loro interesse e che verrà dimenticato (se mai imparato) nel giro di poco tempo. Infine, il metodo di apprendimento basato sui fenomeni aggiunge elementi educativi che mancano completamente nel metodo classico e che possono contribuire alla prevenzione dell’analfabetismo funzionale: la capacità di collaborare (networking), la leadership, lo sviluppo del pensiero critico, il riconoscimento e la risoluzione di problemi e maggiori dinamismo e capacità di adattamento.
Ma i vantaggi di questo metodo in relazione alla conservazione delle capacità di comprensione, valutazione eccetera, sono un’ipotesi teorica o sono stati verificati? Lo chiedo perché nel corso dei miei 36 anni di insegnamento ho usato diversi metodi; in particolare, in un progetto sperimentale proposto da me, mi è stato imposto dall’istituto pedagogico un metodo di lavoro molto simile a questo; preciso che le argomentazioni mi avevano convinta, e quindi l’ho condotto con convinzione ed entusiasmo. Il progetto è stato preceduto da un test d’ingresso e concluso con un test finale, elaborato e poi esaminato dalle stesse persone dell’istituto pedagogico. Ebbene tutti gli scolari (prima media), in tutti gli ambiti verificati, alla fine dell’anno scolastico hanno avuto risultati nettamente inferiori rispetto a nove mesi prima, ossia sapevano di meno, capivano di meno, si esprimevano di meno, e all’inizio dell’anno scolastico successivo non ricordavano praticamente niente di tutto ciò che era stato fatto.
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Grazie per il commento. Qui può trovare una dettagliata descrizione del sistema educativo in procinto di iniziare in Finlandia: http://nebula.wsimg.com/57b76261c219f5e7083e9978cd2cd66d?AccessKeyId=3209BE92A5393B603C75&disposition=0&alloworigin=1.
Non sono descritti studi che dimostrano l’efficacia del sistema, ma la logica dietro mi sembra valida. È vero che gli studenti rischiano di imparare meno (già è così, confrontando le conoscenze di uno studente che ha completato il piano di studi in Italia e uno in un Paese nordico e l’ho appurato in prima persona, vivendoci e lavorandoci), ma non penso che abbia alcuna rilevanza nella vita adulta. Quanti davvero si ricordano e beneficiano di TUTTO quello che hanno imparato a scuola, anni dopo la maturità? Questo sistema probabilmente fornisce nel complesso meno nozioni agli studenti, ma avrebbe il vantaggio di interessare maggiormente quelli che siedono ai banchi di scuola perché non vogliono andare a lavorare e non hanno alcun interesse per le materie. In questo modo potrebbero concentrarsi solamente su quello che interessa loro davvero e trovare stimoli. Penso che avere un programma personalizzato possa rappresentare un vantaggio in questo senso. E le chiedo con sincera curiosità: nella sua esperienza di insegnamento, non pensa che molti studenti che si perdono per strada, o abbandonano gli studi, lo facciano perché non riescono a trovare la loro dimensione in un sistema troppo inquadrato? Perché dai miei ricordi del liceo, ricordo almeno un 20% dei miei compagni che rinunciarono a studiare matematica e fisica dopo il terzo anno perché il programma correva troppo velocemente e non riuscivano a seguirlo. Penso che se avessero avuto un programma che si fosse adattato alle loro necessità, forse non avrebbero mollato.
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Parto da una tua affermazione: “È vero che gli studenti rischiano di imparare meno […] ma non penso che abbia alcuna rilevanza nella vita adulta. Quanti davvero si ricordano e beneficiano di TUTTO quello che hanno imparato a scuola, anni dopo la maturità?” Innanzitutto non rischiano: imparano davvero molto di meno, e questo è estremamente grave per le conseguenze che comporta, perché il punto fondamentale, in base alla mia esperienza sia personale che di insegnante, è che la tua capacità di apprendere e di ricordare è direttamente proporzionale a quanto hai finora appreso e conservato nella memoria, esattamente come la tua capacità di resistenza in un allenamento sportivo è proporzionale alla quantità di allenamento che hai fatto finora, e a essa è a sua volta proporzionale la possibilità di migliorare le tue prestazioni. Immagino che il tuo ragionamento sia: se ti insegno 10 tu trattieni 7 perché la tua capacità di memoria è 7, quindi darti 10 è perfettamente inutile, e allora ti do 7, anzi, meglio 6 così andiamo sul sicuro, e tu trattieni tutto o quasi. Ma, come detto, avviene l’esatto contrario: più abbassi il livello delle tue pretese, sotto qualunque aspetto (apprendimento, attenzione, memorizzazione, disciplina, impegno, tempo di lavoro), e più si abbassa il livello di quello che il discente – la controparte in genere, in qualunque tipo di rapporto – è disposto a darti. Tra l’altro il metodo finlandese è esattamente quello che avevano studiato, anche in loco con trasferte, le mie referenti dell’istituto pedagogico, di cui erano entusiaste e non finivano di cantare le lodi. Ma, come mi confermi, si tratta di elaborazioni teoriche, fatte da “esperti” che insegnano come si fa a insegnare ma con l’insegnamento pratico in classe non si sono misurati (il famoso “chi sa fa, chi non sa insegna” vale anche al livello successivo: chi sa insegnare insegna, chi non sa insegnare va a fare quello che insegna agli insegnanti come si fa a insegnare). L’idea che sta alla base del metodo, tu dici e io concordo, è perfettamente logica: se leggendo un articolo su un tema in cui non sei competente trovi cose che non conosci o non capisci e te le vai a cercare per approfondirle, ti ci concentri molto di più che se stessi ad ascoltare me che ho deciso di spiegarti quella cosa lì, e le capisci e te le ricordi molto meglio. In teoria. In realtà però ho personalmente sperimentato che non funziona, un po’ perché è comunque la scuola, la dirigenza, l’insegnante a decidere che cosa si fa o non si fa, non il bambino che arriva e non ha ancora alcun tipo di conoscenza, e un po’ perché la scuola, in qualunque modo si faccia, “sa di scuola”. Un esempio che credo più o meno tutti abbiano sperimentato: la maggior parte dei bambini sono dei mezzi genietti dell’informatica, e sul pc ci passano le giornate, ma quando l’informatica è materia scolastica obbligatoria, la faranno pur sempre più volentieri di storia, ma l’entusiasmo non è più lo stesso. E gioca inoltre un ruolo molto poco positivo il fatto che ciò che viene presentato come attività quasi ludica e priva di selezione, si tende a prenderla poco sul serio. Senza esserne consapevoli, sia ben chiaro, ma è una reazione automatica, e quindi c’è meno impegno vero e se ne trattiene di meno.
E vengo all’ultima questione che poni. Sicuramente spaccarti la testa su matematica e continuare a prendere 4 mentre io prendo 8 ascoltando le lezioni con mezzo orecchio e nient’altro è un bel po’ frustrante, ma lo sarebbe molto meno essere messo nel gruppo che deve risolvere “vado al mercato, compro due chili di mele a 2,60 euro al chilo, quanto spendo?” mentre io vengo mandata a risolvere le equazioni a due incognite? Non avresti la consapevolezza, qualunque nome rassicurante venga dato al tuo gruppo, che quello è comunque “il gruppo degli asini”? E il risultato alla fine non sarà quello di allargare sempre più la forbice fra le tue conoscenze e le mie, le tue capacità e le mie, i tuoi progressi e i miei? E soprattutto mi fa paura la non selettività: oltre alla frustrazione di chi ha lavorato e si vede attribuire lo stesso risultato di chi non lo ha fatto, o di chi, per carenze naturali, ha ottenuto risultati nettamente inferiori – con la conseguenza, piuttosto frequente, di perdere entusiasmo e interesse, e la netta percezione di avere subito un’ingiustizia – c’è il fatto che se tu passi indenne tutti gli stadi, è naturale che tu sia convinto di essere dotato e di sapere tutto il necessario. Poi vai a tagliare pance o costruire ponti… E aggiungo un’ultima cosa: la scuola non è un semplice distributore automatico di apprendimento: è anche una palestra di socializzazione, in cui si impara a gestire i rapporti umani nell’ambito del gruppo-classe, a misurarsi con gli altri, gestire i conflitti, elaborare le frustrazioni, controllare i propri impulsi ecc. Col sistema dei gruppi di livello e tutto il resto dove va a finire tutto questo?
PS: anche se immagino che potrei essere comodamente tua nonna, non credo sia necessario che mi dia del lei.
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Cara Barbara (suppongo), ti ringrazio infinitamente per la risposta, perché mi ha fatto aprire gli occhi su diversi aspetti che non avevo considerato e sui quali mi trovo effettivamente d’accordo con te. Visto che il tuo commento è una delle opinioni più sensate che abbia mai letto in materia educativa, mi piacerebbe conoscere meglio la tua opinione sull’organizzazione scolastica. Se tu avessi carta bianca, come la struttureresti? Pensi che 5 anni di elementari, 3 di medie e 5 di superiori siano la soluzione migliore? Vivendo all’estero in una comunità internazionale, ho avuto modo di conoscere diversi sistemi educativi, strutturati in maniera abbastanza diversa tra loro. Per quanto mi riguarda, pur essendo stato fortunato con gli insegnanti (quasi tutti molto validi), spesso è capitato che il programma non venisse portato a termine, o concluso alla “viva il parroco” per mancanza di tempo. Tant’è che mi sono trovato a pensare che allungando le superiori e magari accorciando le scuole medie, o addirittura accorpandole alle elementari, forse ci sarebbe più tempo per approfondimenti o altre attività interattive (o meno frontali, come lavori di gruppo, ecc.). Cosa ne pensi al riguardo?
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C’è stato un momento in cui, fra gli ottanta miliardi di riforme e proposte di riforme e abbozzi di riforme susseguitisi negli anni, c’è stata quella di cambiare i moduli, ossia unire gli ultimi due anni delle elementari alle medie e staccare l’ultimo delle medie per unirlo alle superiori aggiungendo un anno (l’attuale terza media appunto) all’inizio e togliendone uno alla fine, avendo quindi 3+4+5 (se ricordo bene). Di conseguenza fra gli insegnanti delle medie quelli che fossero stati assegnati ai primi due anni si sarebbero trovati a lavorare anche con bambini delle (ex) elementari, mentre quelli che si fossero ritrovati con la terza avrebbero avuto anche quelli delle superiori. E io ero letteralmente terrorizzata all’idea che potesse capitarmi di dover fare lezione a dei bambini di nove anni. Perché insegnare in un’altra fascia di età non significa insegnare cose diverse: significa fare un altro mestiere, per il quale io non ho alcuna preparazione, né competenza, né attitudine. Più o meno come non basta la comune laurea in medicina perché un geriatra possa riciclarsi come pediatra o viceversa. Sia ben chiaro: non sto dicendo che i moduli attuali debbano restare fissi da qui all’eternità, ma se si vogliono cambiare le cose bisogna prima procurare il personale necessario. Come lavoro fisso ho sempre insegnato alle medie, però ho avuto anche un’esperienza di un corso estivo di mantenimento alle elementari, ho fatto un anno di scuola serale alle superiori e due semestri all’università di Mogadiscio, e posso dire che sono veramente quattro mestieri diversi: per farli devi prima di tutto averne l’attitudine, e poi impararli.
La tua domanda “se avessi carta bianca” mi ha ricordato il mio concorso di abilitazione. All’orale c’erano tre commissari: uno interrogava sulla didattica, uno sulla pedagogia e uno poneva questioni pratiche, del genere le capita così e così, che cosa fa, come reagisce, come si comporta (che hanno mandato in crisi quasi tutti: “mi ha fatto una domanda cretina!” “mi ha chiesto di una situazione in cui non mi sono mai trovata!” A me invece è piaciuta un sacco), e la situazione che mi ha proposto è stata questa: si deve costruire una nuova scuola, vengono convocati un architetto, uno psicologo, un preside e un insegnante. L’insegnante è lei: che cosa chiede? Ecco, la risposta alla tua questione sulla carta bianca è questa: niente esperti che studiano le cose sulla carta ma persone che le vivono, compreso magari anche qualche ex studente, qualcuno brillante, qualcuno scadente, qualcuno bocciato: secondo me una proposta che abbia qualche validità, in questo o in altri campi può venire fuori solo così, mai dagli esperti. Ricordo un aggiornamento su bullismo e comportamenti disturbanti tenuto da uno psicologo, docente universitario, autore di libri eccetera. Beh, da lui abbiamo sentito cose allucinanti, non aveva la più pallida idea di cosa fossero le dinamiche di classe, che anche per il più giovane, inesperto, scalcinato di noi erano pane quotidiano: il classico esperto, che della pratica non aveva la minima idea. Credeva di averla perché faceva lo psicoterapeuta, ma non gli era mai passato per la testa che il bambino da solo di fronte all’adulto non è il bambino inserito nel gruppo! E quindi, dicevo, dalle decisioni andrebbero categoricamente esclusi gli esperti.
E ora dirò una cosa che so essere estremamente impopolare. Quando andavo a scuola io si bocciava fin dalla prima elementare: e il ragionamento era molto semplice: se queste cose non le sai, non sei in condizione di affrontare quelle che vengono dopo, perché quelle poggiano su queste. Non era un trauma, era un’opportunità. E una lezione di vita: se non hai lavorato credendo di potertelo permettere, adesso sai che non funziona. E si sapeva che se l’anno successivo si continuava a non lavorare, si sarebbe stati bocciati di nuovo, e quindi ci si rimboccavano le maniche e ci si metteva al lavoro. Un po’ alla volta è passata l’idea che selezionare non è compito della scuola, che il bambino (ragazzo, quasi-uomo) non deve subire frustrazioni (le mie “esperte” dell’istituto pedagogico erano arrivate a vietarmi di dire “hai sbagliato”, perché è frustrante, di correggere gli errori, perché è umiliante, di pronunciare la parola “no” perché il “no” blocca, no si dice a un cane, non a un essere umano. Una aveva imparato talmente bene la lezione che se nel corso di una conversazione mi capitava dire “no ma senti”, immediatamente schizzava su “non dirmi no, lo sai che mi blocco!”. Un altro esperto in un aggiornamento ha detto che non si dovrebbero sottolineare gli errori in rosso, perché il rosso è offensivo, e anche la riga sotto la parola sbagliata è offensiva) e quindi sono quasi completamente sparite le bocciature, sono spariti gli esami di riparazione, è sparito il voto di condotta, se sei eccezionalmente bocciato hai la certezza matematica che qualunque cosa tu faccia non potrai essere bocciato di nuovo per cui non farai niente e, invertendo la causa con l’effetto, si sentenzia che “lo vedi? Bocciare non serve, anzi è controproducente”. E, a parte la questione della preparazione, la cosa ha effetti devastanti sulla vita delle persone. Perché fuori dalla scuola poi ti aspetta la vita, e la vita di sconti non ne fa a nessuno, e se tu sei arrivato fin lì senza avere mai dovuto gestire frustrazioni, fallimenti, rifiuti, assunzione di responsabilità, sei destinato a soccombere. Oltre al fatto che chi ti deve assumere, e pagare, se ne frega dei pezzi di carta che hai collezionato e va a verificare che cosa sai e che cosa sai fare. E, concludendo, abbassando sempre più il livello per mettere in grado di raggiungere il diploma anche il figlio dell’operaio semianalfabeta, magari poco dotato e anche un po’ fancazzista, si è ottenuto il risultato che il figlio dell’operaio va alla scuola pubblica da cui esce con un pezzo di carta che non vale niente mentre il figlio della famiglia benestante va alla scuola privata, dove si fa il mazzo e alla fine ha qualcosa che lo rende competitivo.
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Quello che hai scritto è molto interessante e dà conferma a quanto tu scrivi, ovvero che gente “del mestiere” dovrebbe avere più voce in capitolo rispetto a chi osserva dall’esterno. Per quanto riguarda il discorso “bocciature”, mi trovi assolutamente d’accordo. Quando ero alle elementari mi era capitato in classe un bambino che ha dovuto ripetere la quarta, e gli ha fatto solo bene. Così come in terza media c’era stata una mattanza di capre che fortunatamente così sono rimaste fuori dalle superiori. Col senno di poi sono contento di aver fatto l’esame di quinta elementare, perché mi ha preparato per quello delle medie, e via dicendo. Non li ho mai vissuti come un trauma, anche se mi tenevano in tensione perché ho sempre ambito ai voti più alti. Però, quando qualche anno fa mi sono trovato a discutere la tesi di dottorato davanti a decine di persone, ero preparato psicologicamente perché non era il primo “esame finale” che affrontavo. Ora che bisogna tenere i ragazzi nella bambagia per non “traumatizzarli” e i genitori minacciano gli insegnanti se questi ultimi si azzardano a scrivere una nota di demerito, penso che la percentuale di inetti alla vita sarà significativamente superiore rispetto alle generazioni precedenti.
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Figurati che una volta una ha minacciato di farmi ricorso perché avevo dato 6 in un tema a casa! Non dico per una bocciatura, non dico per un’insufficienza in pagella, ma per un voto positivo più basso di quello che lei riteneva giusto (anche perché, come poi ho appreso, nel tema aveva messo le mani lei…). Un altro mi ha telefonato a casa e mi ha fatto una mezza sfuriata perché gli ho ammesso il figlio all’esame con 9 mentre secondo lui meritava il 10, accusandomi di arrotondare sempre in basso a suo figlio mentre a una certa compagna avrei arrotondato sempre in alto (poi gli ho fatto il conto preciso e la media era 8,87). Gli insegnanti ormai da anni vivono con l’incubo del ricorso, già hanno una burocrazia che uccide, in più devono stare attenti a ogni più microscopico dettaglio che possa offrire pretesti per un ricorso. Per esempio una volta siamo stati costretti a promuovere uno che era negativo in tutte le materie tranne religione e ginnastica, impegno zero, disciplina zero, perché il coordinatore di classe non aveva provveduto a scrivere una lettera ufficiale a casa per informare che era a rischio bocciatura. La madre aveva firmato tutti i compiti in classe, era venuta alle udienze e si era sentita dire tutto quello che c’era da dire, ma senza lettera ufficiale niente bocciatura. Non so se queste fossero regole particolari della scuola tedesca in Alto Adige, comunque lì è così, da qualunque parte ti giro sei legato mani e piedi.
Quanto agli esami, io ho fatto anche quelli di seconda elementare, che avevano un vantaggio straordinario: non mettevano in tensione perché si era troppo piccoli per rendersi conto, e quando si arrivava a quelli di quinta era un’esperienza già fatta, e quindi molto meno drammatica.
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